Manlio Sgalambro in Tempo Presente. Informazione e discussione, IX, nn. 3-4, marzo-aprile 1964, pp. 69-72
Che cosa significa trattare un problema esteticamente? Anzitutto trattarlo come il problema di un singolo. Certo questo non ne esaurisce tutti i significati, diciamo però che ne sottolinea il più importante. Con tutto ciò rimane ancora da stabilire perché un problema si debba trattare esteticamente. Ecco, potrebbe essere perché è un problema che solo il fatto che è vissuto da un singolo giustifica, e nient’altro; perché non ha alcun’altra esistenza al mondo che quella di essere vissuto da qualcuno. In tal caso non ci sono quadri entro cui un tale problema può essere trattato, o piuttosto ce n’è uno solo, l’estetica.
Non abbiamo però parlato di un’altra ragione, quella che ha detto Kierkegaard: «Essere un poeta e avere la propria vita personale in categorie diverse da quelle che si espongono poeticamente». È una ragione indiretta, ma stabilisce l’altra grande possibilità dell’estetica: la sua ubiquità. Essa permette di essere nello stesso tempo in due punti differenti: con la vita in uno, con l’immaginazione in un altro. Diciamo ancora di più – avremmo dovuto dirlo sin dall’inizio – essa permette di parlare come di un proprio problema, di un problema che non lo è affatto; e come di un problema che non è per niente proprio, di un problema che lo è assolutamente. Essa autorizza questa confusione e ne è complice; ma questa ambiguità le è essenziale. L’estetica permette di nascondersi (un altro suo carattere è difatti la doppiezza); ma d’altra parte nessuno di noi conosce altra possibilità, più di questa, di mettersi a nudo; ma anche qui gioca l’ambiguità ed è difficile stabilire quand’è che ci si nasconde e quand’è che ci si rivela: quando parliamo esteticamente, parliamo di noi stessi, oppure parliamo di un altro? di una cosa o di un’altra? L’abbiamo detto, l’ambiguità è essenziale all’estetica; un altro discorso è se è essenziale a chi ne parla; ma anche qui l’ipocrisia e la spudoratezza (non la sincerità, badiamo; la sincerità è una categoria etica, non estetica) giocano a suo favore: perché deve rimanere (deve, s’intende, esteticamente) del tutto irrisolto se egli parla di se stesso o di un altro; deve rimanere del tutto irrisolto se egli parla come di un proprio problema, di un problema che non lo è affatto; oppure come di un problema che non è per niente proprio, di un problema che lo è assolutamente.
Posto che il maggior contributo datoci da Kierkegaard sia l’estetica (come afferma T. W. Adorno nel saggio Kierkegaard, la costruzione dell’estetico, pubblicato in italiano presso Longanesi) e quindi questa controluce in cui egli immette i problemi, questa specie di ambiente diafano e malizioso in cui essi sono visti, che cosa sarà ciò a cui egli tiene di più? La fede? Siamo franchi, per niente; essa è ciò di cui egli si definisce il poeta; in questo senso è il suo maggiore interesse, ma solo in questo senso. Che egli tratti esteticamente la fede, è una confusione deliziosa, ma certo non è solo questo: possiamo dire che è la sua fine?
Avverte Kierkegaard la responsabilità di ciò che fa? Chi può dirlo? Trattata esteticamente la fede, tutto diventa losco; Kierkegaard parla d’Abramo – tema se mai altro religioso – ma è come se tutto fosse sospeso; come se tutto avesse perso i suoi naturali ormeggi; è come se Kierkegaard ammiccasse, come se egli volesse farci capire – ma mai chiaramente – che non è così come noi pensiamo d’aver capito e che non capiremo mai. Quest’uomo che forse ha scavato la tomba alla fede passa ancora per uno dei suoi maggiori sostegni: una immensa ironia che può ben essere il suo premio.
Ma perché tutto questo? Perché ogni problema trattato esteticamente si raddoppia, non è più uno ma due. Non è più quello con cui si cominciò, però nemmeno quello con cui si finisce. Che cos’è allora? Questo viavai continuo e insopportabile dall’uno all’altro; questo sospetto che si tratti sempre di qualche altra cosa e non di quello di cui si tratta; in una parola è il sospetto stesso. Condizione questa quanto mai propria all’uomo moderno; egli non vive né di certezze né di dubbi, ma di sospetti, può ben dire di avere nell’estetica ciò che merita.
Ciò che Kierkegaard affiderà all’estetica è il problema del bene; ma affinché non ci si fraintenda bisogna dire subito che si tratta del bene temporale e finito e quindi del bene di un singolo, anzi del suo bene. Naturalmente queste sono ancora le parole con cui si esprimerebbe l’etica, perché l’estetica, da parte sua, direbbe più semplicemente che si tratta del suo desiderio di avere Regina Olsen.
Se dobbiamo dare ascolto a Spinoza, che dice di averlo appreso dall’esperienza («Postquam me Experientia docuit…»), qui siamo sul piano di quelle cose che in definitiva impediscono all’uomo di vivere, delle cose vana et futilia, di quelle libidines cioè che, assieme alle divitæ e agli honores, l’uomo deve respingere se vuole raggiungere il vero bene. Ma Kierkegaard non vuole imparare dall’esperienza, ma anzi insegnare ad essa; e insegnarle a sottomettersi anche ai desideri più futili e vani fa parte del suo disegno. Come c’era da aspettarsi, il suo intento sarà frustrato ed egli non avrà mai Regina e non se ne darà mai pace confermando così se ce n’era bisogno, che l’esperienza in ultima analisi ha ragione come ha ragione Spinoza nel presagire, per coloro che mettono nelle cose quæ perire possunt il loro bene, le più grandi sciagure. Ai suoi lamenti egli stesso farà questa obiezione: «Se non hai da dire null’altro se non che questo non si può sopportare, allora devi andare in cerca di un mondo migliore»; com’è noto, anche l’etica dice lo stesso, ma il mondo migliore che essa, giudiziosamente, suggerisce di cercare è solo quello che l’etica può offrire, quello che Spinoza raccomanderà come immune da tutto ciò a cui va incontro chi sceglie l’altra strada. L’amore delle cose che possono perire? No, l’amore di ciò che è eterno, è questo che dà pace. Ma il mondo di cui qui si parla è il mondo che immagina l’estetica, quello in cui l’esperienza è sottomessa all’uomo e ai suoi desideri, vani o no che siano.
«Ciò che con tanto scherno l’“etico” rimprovera all’“esteta” come hybris di grandezza – dice Adorno commentando il passo sopra citato – è tuttavia in piccolo il suo migliore retaggio in quanto cellula di un materialismo che va in cerca di “un mondo migliore”, non per dimenticare sognando quello presente, ma per modificarlo partendo dalla forza di un’immagine che nel suo insieme potrà ben essere “disegnata sulla misura astratta del generale”, ma i cui contorni tuttavia si realizzano corporei e univoci in ogni singolo momento dialettico» (opera citata, pagine 321-322). È un’altra possibilità dell’estetica di cui ancora dovremo parlare, ma per intanto resta sempre vincitrice l’esperienza.
Dei rapporti tra Kierkegaard e Regina, Lukács in un vecchio saggio compreso in L’anima e le forme ritiene di poter dire: «Regina Olsen non era altro che una tappa… Anche la donna più profondamente amata era solo un mezzo, una via per arrivare al grande amore, all’unico amore assoluto, all’amore di Dio». Spinoza avrebbe approvato: non è lui che dice che, cercate come mezzo, anche le libidines non sono d’ostacolo ma anzi di grande giovamento? Così Regina è l’amore in corpore vili di Kierkegaard per Dio, un mero materiale, un mezzo, un’astuzia, un trucco. Sì, Spinoza avrebbe approvato, ma Kierkegaard no.
In realtà, da un lato è l’equivoco intrinseco all’estetica che qui non viene visto, lo scambio continuo di parte tra il proprio e il non proprio, tra Regina e Dio; e dall’altro lato l’equivoco della religione che Kierkegaard vive in pieno. Contemporaneamente o quasi, Feuerbach dirà: «Così l’uomo in Dio e attraverso Dio ha di mira solo se stesso»; ma Kierkegaard lo proverà. Non sappiamo dove avrebbe potuto portarlo la sua convinzione finale che nell’Ora egli afferma con tutte le sue forze: il cristianesimo non esiste; e in ogni caso egli rimarrà sempre nella sfera del religioso. Ma il fatto che abbia cosi legato estetica e religione, il desiderio insoddisfatto di avere Regina e la soddisfazione «illusoria» di questo desiderio, lo pongono certamente su quella strada che poi percorreranno Feuerbach e Marx. Adorno può dire: «Quando egli [Kierkegaard] si appoggia volentieri ad autori materialisti della sinistra hegeliana come Börne e Feuerbach contro il vacuo idealismo dell’identità, contro una cristianità nella quale egli presume una conoscenza minore dell’essenza del cristianesimo che non proprio in Feuerbach, è possibile che dietro l’intenzione ironico-dialettica si nasconda una segreta affinità» (opera citata, pagina 107). E in realtà il sospetto è legittimo.
Quel che a Kierkegaard premeva più di ogni altra cosa era dunque il bene finito e temporale, le cose vana et futilia o, per tradurre queste parole dell’etica nelle sue (cioè in quelle dell’estetica) come e dove soddisfare il suo desiderio di avere Regina. E questo era certo un problema che uno Spinoza e un San Tommaso avrebbero ritenuto indegno sia del sapere che della fede e che avrebbero senz’altro tacciato di libidines.
E non solo loro; Lukács ci fa capire ad esempio che, quanto a lui, lo ritiene indegno pure dell’agire e, dopo averne parlato a lungo in quel saggio di cui si diceva, nel capitolo che dedica a Kierkegaard nella Distruzione della ragione, non fa più nemmeno parola di Regina Olsen. La storia millenaria della filosofia ha delle leggi che Lukács nel frattempo ha appreso a venerare ed egli è ormai solidale con Spinoza e con San Tomaso. Che tutto questo finisse invece col mostrare come per Kierkegaard Dio non era un fine ma un mezzo per potere in qualche modo avere la donna che amava e che quindi così la fede veniva rimessa sulle sue basi materiali, Lukács non se ne dà per inteso come non se ne dava per inteso prima; anch’egli può capire San Tommaso che vuole Dio per se stesso, ma non chi lo vuole per delle libidines. E d’altronde perché meravigliarsene? Sedotto definitivamente dai «valori» nati dalla necessità e dal suo «regno» – valori di cui l’etica è la rappresentante legittima – come potrebbe essergli possibile immaginare tutto ciò che accenna a quell’«al di là» promessoci da Marx e dove anche le cose vane e futili diverranno grandi e importanti?
Eccoci arrivati così all’altra grande possibilità dell’estetica, a quella infine a cui volevamo arrivare. «Se non hai da dire null’altro, se non che questo non si può sopportare – dice sprezzante l’etica – allora devi andare in cerca di un mondo migliore». Abbiamo visto che Adorno considera questa ricerca il più importante retaggio dell’estetica. E infatti chi può prendere sul serio colui che va in cerca di un mondo migliore con la stessa appassionata costanza, con la stessa fedeltà dell’estetica? I suoi tenaci sconforti, le sue attese deluse ma sempre rinascenti, dove potranno trovare una patria, chi può raccoglierli se non le mani pietose di essa? Ma alle soglie di questa ricerca Kierkegaard ci lascia. «No – egli dice – la fantasia ha un bel darsi da fare, ma non può mai dar forza di realtà all’immagine che essa presenta; perché, in se stessa, l’immaginazione è più perfetta che la sofferenza della realtà: essa è libera da ogni determinazione di tempo, è al disopra della realtà della sofferenza, può rendere a meraviglia la perfezione e dispone, per dipingerla, di una gamma ricchissima di magnifici colori; viceversa, essa non può rappresentare la sofferenza se non in un quadro conforme alla sua perfezione o idealizzato…» (Scuola di cristianesimo, citato da Adorno, pagine 337-338). Ma, dice giustamente Adorno, «l’irrappresentabilità della disperazione da parte della fantasia è la garanzia che questa dà per la speranza… perché la fantasia non è contemplazione che lascia intatto l’ente; contemplando, essa interviene inosservata nell’ente stesso in quanto ne attua la disposizione nell’immagine» (pagine 338-339). Ciò nonostante Kierkegaard non potrà raccogliere gli effetti delle sue stesse azioni, non perché egli rifiuti la fantasia sibbene perché ne è succube, ma a quel livello dove essa è ciò che Marx nel frattempo avrà denunciato come «la realizzazione fantastica dell’essere umano»; a quel livello, cioè, dov’essa è illusione. Ma l’unione tra estetica e religione da lui stabilita de facto avrà egualmente i suoi effetti e l’estetica seppellirà la religione sostituendo la «realizzazione fantastica» con la fantasia che modifica il mondo a partire da quella sua immagine «migliore» di cui essa va in cerca.
La potenza sovvertitrice dell’estetica avrà dunque egualmente i suoi effetti; sotto l’attacco del desiderio e della fantasia il mondo «reale» comincerà a perdere terreno. Dei significati che l’estetica ha in Kierkegaard, quello che li unifica tutti è, dice Adorno, «l’estetico come atteggiamento, ovvero, secondo l’uso che ne fa più tardi come “sfera”» (pagina 47). Scoperta non meno essenziale di quella che concerne i «bisogni» e l’economia; poiché essa tratta dei desideri e del loro soddisfacimento, essa tratta sia dell’uomo il quale in preda al bisogno può soltanto desiderare che dell’uomo il quale si è liberato del bisogno e può ora finalmente desiderare: in un caso e nell’altro anche da qui torniamo a quel «mondo» che secondo l’immagine di Marx sta «al di là» della necessità e dei bisogni…
Così l’estetica ci avvia alla prospettiva di un sereno materialismo in cui vivere, impossibile oggi come desiderio ma possibile soltanto come necessità, sarà appunto desiderio e brama. Ma l’estetica agisce per istanti e dura quanto dura un sogno; però sotto il colpo di questi istanti qualcosa compare qua e là e anche la speranza che la vita sarà possibile; il vano, il futile, Regina, tutto ci sarà dato e l’etica morirà con la necessità da cui è nata. Ma è solo un momento; ben presto la necessità ci riafferra e tutto si sposta ancora, più in là, e se ci si chiede non sapremo rispondere quando ma solo dove.
Non abbiamo però parlato di un’altra ragione, quella che ha detto Kierkegaard: «Essere un poeta e avere la propria vita personale in categorie diverse da quelle che si espongono poeticamente». È una ragione indiretta, ma stabilisce l’altra grande possibilità dell’estetica: la sua ubiquità. Essa permette di essere nello stesso tempo in due punti differenti: con la vita in uno, con l’immaginazione in un altro. Diciamo ancora di più – avremmo dovuto dirlo sin dall’inizio – essa permette di parlare come di un proprio problema, di un problema che non lo è affatto; e come di un problema che non è per niente proprio, di un problema che lo è assolutamente. Essa autorizza questa confusione e ne è complice; ma questa ambiguità le è essenziale. L’estetica permette di nascondersi (un altro suo carattere è difatti la doppiezza); ma d’altra parte nessuno di noi conosce altra possibilità, più di questa, di mettersi a nudo; ma anche qui gioca l’ambiguità ed è difficile stabilire quand’è che ci si nasconde e quand’è che ci si rivela: quando parliamo esteticamente, parliamo di noi stessi, oppure parliamo di un altro? di una cosa o di un’altra? L’abbiamo detto, l’ambiguità è essenziale all’estetica; un altro discorso è se è essenziale a chi ne parla; ma anche qui l’ipocrisia e la spudoratezza (non la sincerità, badiamo; la sincerità è una categoria etica, non estetica) giocano a suo favore: perché deve rimanere (deve, s’intende, esteticamente) del tutto irrisolto se egli parla di se stesso o di un altro; deve rimanere del tutto irrisolto se egli parla come di un proprio problema, di un problema che non lo è affatto; oppure come di un problema che non è per niente proprio, di un problema che lo è assolutamente.
Posto che il maggior contributo datoci da Kierkegaard sia l’estetica (come afferma T. W. Adorno nel saggio Kierkegaard, la costruzione dell’estetico, pubblicato in italiano presso Longanesi) e quindi questa controluce in cui egli immette i problemi, questa specie di ambiente diafano e malizioso in cui essi sono visti, che cosa sarà ciò a cui egli tiene di più? La fede? Siamo franchi, per niente; essa è ciò di cui egli si definisce il poeta; in questo senso è il suo maggiore interesse, ma solo in questo senso. Che egli tratti esteticamente la fede, è una confusione deliziosa, ma certo non è solo questo: possiamo dire che è la sua fine?
Avverte Kierkegaard la responsabilità di ciò che fa? Chi può dirlo? Trattata esteticamente la fede, tutto diventa losco; Kierkegaard parla d’Abramo – tema se mai altro religioso – ma è come se tutto fosse sospeso; come se tutto avesse perso i suoi naturali ormeggi; è come se Kierkegaard ammiccasse, come se egli volesse farci capire – ma mai chiaramente – che non è così come noi pensiamo d’aver capito e che non capiremo mai. Quest’uomo che forse ha scavato la tomba alla fede passa ancora per uno dei suoi maggiori sostegni: una immensa ironia che può ben essere il suo premio.
Ma perché tutto questo? Perché ogni problema trattato esteticamente si raddoppia, non è più uno ma due. Non è più quello con cui si cominciò, però nemmeno quello con cui si finisce. Che cos’è allora? Questo viavai continuo e insopportabile dall’uno all’altro; questo sospetto che si tratti sempre di qualche altra cosa e non di quello di cui si tratta; in una parola è il sospetto stesso. Condizione questa quanto mai propria all’uomo moderno; egli non vive né di certezze né di dubbi, ma di sospetti, può ben dire di avere nell’estetica ciò che merita.
Ciò che Kierkegaard affiderà all’estetica è il problema del bene; ma affinché non ci si fraintenda bisogna dire subito che si tratta del bene temporale e finito e quindi del bene di un singolo, anzi del suo bene. Naturalmente queste sono ancora le parole con cui si esprimerebbe l’etica, perché l’estetica, da parte sua, direbbe più semplicemente che si tratta del suo desiderio di avere Regina Olsen.
Se dobbiamo dare ascolto a Spinoza, che dice di averlo appreso dall’esperienza («Postquam me Experientia docuit…»), qui siamo sul piano di quelle cose che in definitiva impediscono all’uomo di vivere, delle cose vana et futilia, di quelle libidines cioè che, assieme alle divitæ e agli honores, l’uomo deve respingere se vuole raggiungere il vero bene. Ma Kierkegaard non vuole imparare dall’esperienza, ma anzi insegnare ad essa; e insegnarle a sottomettersi anche ai desideri più futili e vani fa parte del suo disegno. Come c’era da aspettarsi, il suo intento sarà frustrato ed egli non avrà mai Regina e non se ne darà mai pace confermando così se ce n’era bisogno, che l’esperienza in ultima analisi ha ragione come ha ragione Spinoza nel presagire, per coloro che mettono nelle cose quæ perire possunt il loro bene, le più grandi sciagure. Ai suoi lamenti egli stesso farà questa obiezione: «Se non hai da dire null’altro se non che questo non si può sopportare, allora devi andare in cerca di un mondo migliore»; com’è noto, anche l’etica dice lo stesso, ma il mondo migliore che essa, giudiziosamente, suggerisce di cercare è solo quello che l’etica può offrire, quello che Spinoza raccomanderà come immune da tutto ciò a cui va incontro chi sceglie l’altra strada. L’amore delle cose che possono perire? No, l’amore di ciò che è eterno, è questo che dà pace. Ma il mondo di cui qui si parla è il mondo che immagina l’estetica, quello in cui l’esperienza è sottomessa all’uomo e ai suoi desideri, vani o no che siano.
«Ciò che con tanto scherno l’“etico” rimprovera all’“esteta” come hybris di grandezza – dice Adorno commentando il passo sopra citato – è tuttavia in piccolo il suo migliore retaggio in quanto cellula di un materialismo che va in cerca di “un mondo migliore”, non per dimenticare sognando quello presente, ma per modificarlo partendo dalla forza di un’immagine che nel suo insieme potrà ben essere “disegnata sulla misura astratta del generale”, ma i cui contorni tuttavia si realizzano corporei e univoci in ogni singolo momento dialettico» (opera citata, pagine 321-322). È un’altra possibilità dell’estetica di cui ancora dovremo parlare, ma per intanto resta sempre vincitrice l’esperienza.
Dei rapporti tra Kierkegaard e Regina, Lukács in un vecchio saggio compreso in L’anima e le forme ritiene di poter dire: «Regina Olsen non era altro che una tappa… Anche la donna più profondamente amata era solo un mezzo, una via per arrivare al grande amore, all’unico amore assoluto, all’amore di Dio». Spinoza avrebbe approvato: non è lui che dice che, cercate come mezzo, anche le libidines non sono d’ostacolo ma anzi di grande giovamento? Così Regina è l’amore in corpore vili di Kierkegaard per Dio, un mero materiale, un mezzo, un’astuzia, un trucco. Sì, Spinoza avrebbe approvato, ma Kierkegaard no.
In realtà, da un lato è l’equivoco intrinseco all’estetica che qui non viene visto, lo scambio continuo di parte tra il proprio e il non proprio, tra Regina e Dio; e dall’altro lato l’equivoco della religione che Kierkegaard vive in pieno. Contemporaneamente o quasi, Feuerbach dirà: «Così l’uomo in Dio e attraverso Dio ha di mira solo se stesso»; ma Kierkegaard lo proverà. Non sappiamo dove avrebbe potuto portarlo la sua convinzione finale che nell’Ora egli afferma con tutte le sue forze: il cristianesimo non esiste; e in ogni caso egli rimarrà sempre nella sfera del religioso. Ma il fatto che abbia cosi legato estetica e religione, il desiderio insoddisfatto di avere Regina e la soddisfazione «illusoria» di questo desiderio, lo pongono certamente su quella strada che poi percorreranno Feuerbach e Marx. Adorno può dire: «Quando egli [Kierkegaard] si appoggia volentieri ad autori materialisti della sinistra hegeliana come Börne e Feuerbach contro il vacuo idealismo dell’identità, contro una cristianità nella quale egli presume una conoscenza minore dell’essenza del cristianesimo che non proprio in Feuerbach, è possibile che dietro l’intenzione ironico-dialettica si nasconda una segreta affinità» (opera citata, pagina 107). E in realtà il sospetto è legittimo.
Quel che a Kierkegaard premeva più di ogni altra cosa era dunque il bene finito e temporale, le cose vana et futilia o, per tradurre queste parole dell’etica nelle sue (cioè in quelle dell’estetica) come e dove soddisfare il suo desiderio di avere Regina. E questo era certo un problema che uno Spinoza e un San Tommaso avrebbero ritenuto indegno sia del sapere che della fede e che avrebbero senz’altro tacciato di libidines.
E non solo loro; Lukács ci fa capire ad esempio che, quanto a lui, lo ritiene indegno pure dell’agire e, dopo averne parlato a lungo in quel saggio di cui si diceva, nel capitolo che dedica a Kierkegaard nella Distruzione della ragione, non fa più nemmeno parola di Regina Olsen. La storia millenaria della filosofia ha delle leggi che Lukács nel frattempo ha appreso a venerare ed egli è ormai solidale con Spinoza e con San Tomaso. Che tutto questo finisse invece col mostrare come per Kierkegaard Dio non era un fine ma un mezzo per potere in qualche modo avere la donna che amava e che quindi così la fede veniva rimessa sulle sue basi materiali, Lukács non se ne dà per inteso come non se ne dava per inteso prima; anch’egli può capire San Tommaso che vuole Dio per se stesso, ma non chi lo vuole per delle libidines. E d’altronde perché meravigliarsene? Sedotto definitivamente dai «valori» nati dalla necessità e dal suo «regno» – valori di cui l’etica è la rappresentante legittima – come potrebbe essergli possibile immaginare tutto ciò che accenna a quell’«al di là» promessoci da Marx e dove anche le cose vane e futili diverranno grandi e importanti?
Eccoci arrivati così all’altra grande possibilità dell’estetica, a quella infine a cui volevamo arrivare. «Se non hai da dire null’altro, se non che questo non si può sopportare – dice sprezzante l’etica – allora devi andare in cerca di un mondo migliore». Abbiamo visto che Adorno considera questa ricerca il più importante retaggio dell’estetica. E infatti chi può prendere sul serio colui che va in cerca di un mondo migliore con la stessa appassionata costanza, con la stessa fedeltà dell’estetica? I suoi tenaci sconforti, le sue attese deluse ma sempre rinascenti, dove potranno trovare una patria, chi può raccoglierli se non le mani pietose di essa? Ma alle soglie di questa ricerca Kierkegaard ci lascia. «No – egli dice – la fantasia ha un bel darsi da fare, ma non può mai dar forza di realtà all’immagine che essa presenta; perché, in se stessa, l’immaginazione è più perfetta che la sofferenza della realtà: essa è libera da ogni determinazione di tempo, è al disopra della realtà della sofferenza, può rendere a meraviglia la perfezione e dispone, per dipingerla, di una gamma ricchissima di magnifici colori; viceversa, essa non può rappresentare la sofferenza se non in un quadro conforme alla sua perfezione o idealizzato…» (Scuola di cristianesimo, citato da Adorno, pagine 337-338). Ma, dice giustamente Adorno, «l’irrappresentabilità della disperazione da parte della fantasia è la garanzia che questa dà per la speranza… perché la fantasia non è contemplazione che lascia intatto l’ente; contemplando, essa interviene inosservata nell’ente stesso in quanto ne attua la disposizione nell’immagine» (pagine 338-339). Ciò nonostante Kierkegaard non potrà raccogliere gli effetti delle sue stesse azioni, non perché egli rifiuti la fantasia sibbene perché ne è succube, ma a quel livello dove essa è ciò che Marx nel frattempo avrà denunciato come «la realizzazione fantastica dell’essere umano»; a quel livello, cioè, dov’essa è illusione. Ma l’unione tra estetica e religione da lui stabilita de facto avrà egualmente i suoi effetti e l’estetica seppellirà la religione sostituendo la «realizzazione fantastica» con la fantasia che modifica il mondo a partire da quella sua immagine «migliore» di cui essa va in cerca.
La potenza sovvertitrice dell’estetica avrà dunque egualmente i suoi effetti; sotto l’attacco del desiderio e della fantasia il mondo «reale» comincerà a perdere terreno. Dei significati che l’estetica ha in Kierkegaard, quello che li unifica tutti è, dice Adorno, «l’estetico come atteggiamento, ovvero, secondo l’uso che ne fa più tardi come “sfera”» (pagina 47). Scoperta non meno essenziale di quella che concerne i «bisogni» e l’economia; poiché essa tratta dei desideri e del loro soddisfacimento, essa tratta sia dell’uomo il quale in preda al bisogno può soltanto desiderare che dell’uomo il quale si è liberato del bisogno e può ora finalmente desiderare: in un caso e nell’altro anche da qui torniamo a quel «mondo» che secondo l’immagine di Marx sta «al di là» della necessità e dei bisogni…
Così l’estetica ci avvia alla prospettiva di un sereno materialismo in cui vivere, impossibile oggi come desiderio ma possibile soltanto come necessità, sarà appunto desiderio e brama. Ma l’estetica agisce per istanti e dura quanto dura un sogno; però sotto il colpo di questi istanti qualcosa compare qua e là e anche la speranza che la vita sarà possibile; il vano, il futile, Regina, tutto ci sarà dato e l’etica morirà con la necessità da cui è nata. Ma è solo un momento; ben presto la necessità ci riafferra e tutto si sposta ancora, più in là, e se ci si chiede non sapremo rispondere quando ma solo dove.