La libertà comunista

Manlio Sgalambro in Tempo Presente. Informazione e discussione, IX, n. 5, maggio 1964, pp. 52-53

Nel suo libro La libertà comunista (pubblicato presso le Edizioni Avanti) Galvano Della Volpe accusa esplicitamente Marx che con l’affermare che «il regno della libertà comincia “al di là” della produzione materiale economica, perché il principio di questa, pur socializzata, rimane la Lebensnot, il bisogno, la cura, la necessità» rinuncia così «per una libertà di tipo romantico, astratta, mitica, alla libertà reale» perché l’esistenza umana resterà, anche «al di là» della produzione materiale, sempre quella di un soggetto di bisogni, di un ente limitato, finito, e come tale non potrà conoscere che una libertà finita.
Di questo libro e dell’altro che di poco lo precede – La teoria marxista dell’emancipazione umana – Naville ebbe a dire che si trattava di due lunghi controsensi proprio per la tesi che vi era sostenuta secondo la quale per Marx il lavoro è il primo bisogno o il fine dell’esistenza (De l’aliénation à la jouissance – La genèse de la sociologie du travail chez Marx et Engels) e contro di essa ribadiva che per Marx invece «ciò che il comunismo vuole sopprimere… non è la condizione feudale o capitalista del lavoro, ma il lavoro stesso». Inutile dire che per Della Volpe non solo resterà il concetto più rivoluzionario dell’etica marxiana, quello in cui culmina, per usare ancora le sue parole, «tutta la sua pregnante problematica», ma egli annuncia che «la concezione del lavoro come attività personale e “libertà” è… l’inizio di una trasmutazione di tutti i valori», trasmutazione che non potrà essere altro, poiché merito e lavoro sono un «binomio indissolubile», che il «riconoscimento sociale adeguato dei meriti personali» e non certo il regno della libertà dove il «binomio indissolubile» si scioglierà come neve al sole e il merito non avrà più alcun significato.
Le cose sono dunque a questo punto allorquando l’idillio filologico intessuto da Della Volpe con Marx si interrompe bruscamente; lo accusa, gli imputa di dimenticare («per così dire» aggiunge) quanto ha detto prima e manifesta ben chiara la sua intenzione che di fronte a questi discorsi – di «al di là» eccetera – egli opporrà fermamente ciò che Aristotele opponeva in simili casi a Platone: discorsi vuoti e metafore poetiche. Che cosa è successo? Ecco, il principio in questione è il punto centrale, il concetto più rivoluzionario, ma Marx lo dimentica. Noi non faremo a Della Volpe il torto di pensare che egli con il «per così dire» abbia voluto attenuare la gravità della cosa; si vede bene invece che la sua intenzione è di inchiodare Marx alle sue responsabilità. E in realtà se Della Volpe avesse ragione dovrebbe essere accaduto qualcosa la cui gravità nessun «per così dire» potrebbe diminuire perché in questo passo, com’è noto, Marx dice appunto: «Il regno della libertà comincia di fatto solo là dove il lavoro, il quale è determinato dalla necessità e dalla finalità esterna, ha fine; esso si trova dunque per sua natura al di là della sfera della produzione materiale vera e propria». Senonché proprio nell’Ideologia tedesca, dove dovrebbe trovarsi in definitiva ciò che Marx secondo Della Volpe avrebbe dimenticato, questo concetto il più rivoluzionario dell’etica, insomma il lavoro come primo bisogno e fine dell’esistenza e la sua identità con la libertà, troviamo invece detto che esso è l’unica forma per ora possibile ma negativa dell’attività personale, come troviamo anche detto che di conseguenza bisogna abolire la condizione esistente quale è stata fin oggi e «che in pari tempo è la condizione di esistenza di tutta la società fino a oggi: il lavoro» e solo le arti filologiche di Della Volpe, quando Marx dice «soppressione del lavoro» intendendo del lavoro «secondo l’economia politica», possono fargli dire tutto il contrario e permettere a Della Volpe stesso di porre il «binomio assiologico» al posto del regno della libertà o, per dirla con Marx, il nipote al posto dello zio…
Dire che il «regno della libertà» è una metafora, è una metafora per dire che la necessità non finirà mai e che il totalmente altro resterà totalmente lo stesso. Ma in ogni caso, quale che sia il suo rapporto con Marx, qual è il suo rapporto con noi, con coloro per i quali è l’al di là il primo bisogno e il fine dell’esistenza? Conosciamo già la risposta; re o suddito del regno della necessità, sappiamo comunque che il suo pensiero non è mosso da questo bisogno e forse, qualunque cosa egli dica, da nessun altro.
Nella Ideologia tedesca leggiamo ancora: «In un individuo… la cui vita abbraccia una grande cerchia di molteplici attività e relazioni pratiche col mondo, e che quindi conduce una vita ricca di vari aspetti, il pensiero ha lo stesso carattere di universalità che presenta ogni altra manifestazione della vita di questo individuo. Esso dunque non si fissa come pensiero astratto né ha bisogno di ampi artifici della riflessione, quando l’individuo passa dal pensiero a un’altra manifestazione della vita. È sempre, a priori, un momento che secondo il bisogno scompare e si riproduce nella vita complessiva dell’individuo». È questo il pensiero a cui aspiriamo e dove ci libereremo anzitutto del maggior pericolo che incombe su di esso, ineliminabile quando il pensiero si fissa: l’abitudine. Non saranno più concesse attenuanti al pensatore abituale, a colui cioè che pensa senza bisogno.

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