«La scienza regala all’uomo balocchi per tenerlo tranquillo…»

Enzo Siciliano in Corriere della Sera, 6 giugno 1982, p. 13
(recensione a Manlio Sgalambro, La morte del sole)

Sgalambro: «La morte del sole»

Non so che conto potranno fare i filosofi professionali di questo volume di Manlio Sgalambro. Essi sono indirizzati oggi ad alcuni fini pratici: vogliono «migliorare» l’uomo, farlo «progredire» e «uscire di minorità». Per realizzare questi scopi, i tanti nostri filosofi si dividono tra la cattedra universitaria e qualche assessorato alla cultura; si occupano di filosofia e non di «verità» (direbbe Sgalambro); al massimo, scrivono romanzi, e di quel genere, il giallo, considerato il più romanzesco di tutti, ma da chi è affatto digiuno di narrativa.
Sgalambro vuole spogliare la filosofia di ogni suggestione «culturale» e «pedagogica». «Brutte e informi, le filosofie odierne conducono una vita strumentale». Appunto: «sbrigano compiti subalterni: servono la specie». Prevedono d’essere buttate via dopo l’uso: «non hanno più tempo per la lentezza della conoscenza». In tal senso, la filosofia non ha altra preoccupazione che quella di salvare l’uomo dalla filosofia medesima, da quella stupidità che essa ha, in certe misura, costruita a norma del proprio procedere.
«L’illuminismo guadagna la sua battaglia quando diventa idealismo», scrive Sgalambro: «e insieme alla paura elimina la realtà. Ci si può sbarazzare del terrore se ci si libera della realtà. Ciò insegna l’idealismo all’illuminismo, il cui programma è sbarazzarsi della paura lasciando sussistere la realtà». Se la filosofia ha un compito, è quello di lasciare immodificate (dal pensiero) paura e realtà: la realtà nel suo essere dispersa e non collazionabile. Di qui la paura, il terrore, che scrittori come Poe e Baudelaire hanno coltivato: essi capirono «che lo spavento rivela la realtà», una realtà tutta minore, fluida e caotica, che nessuna categoria trascendentale riuscirà mai a dominare e in concreto a unificare.
La natura è matrigna, il sole muore, la scienza stessa lo dice: muore la diffusa vitalità su cui abbiamo eternato le nostre certezze. La scienza è impotente a frenare questa distruzione, o autodistruzione del mondo e della vita: ha inventato stratagemmi surrogatori, consolatori, come la tecnica. «La facies tecnica della scienza è il suo aspetto allegorico; da quando la scienza nel suo complesso acquistò coscienza della sua impotenza reale». Quindi certa del suo essere impotente, la scienza «regala agli uomini balocchi per distrarli e tenerli tranquilli. (…) I doni della tecnica hanno origine dalla colpa; attraverso essi la tetra coscienza della scienza chiede perdono».
Si dirà: è questa una filosofia dell’apocalisse, di una oscura e irreversibile decadenza, della reazione e della morte. Per un verso Sgalambro potrebbe rispondere di sì. Il suo rifiuto a illuminismo e idealismo è un radicale rifiuto a Kant, perciò a ogni utopia regolata e liberatrice. Ma a corollario di questo, il filosofo aggiunge: «Non si può essere reazionari perché non c’è dove tornare; non si può essere progressisti, perché non c’è dove andare».
D’altra parte, la paura metodica di cui il suo ragionamento fa teatro può trasformarsi in una realistica e umanitaria arma di salvezza: quella paura porta al rifiuto della tecnica, al rifiuto di tutti quei pericolosi balocchi che, lo sappiamo benissimo, sono concreti strumenti di distruzione e morte (non c’è ritrovato tecnico che non abbia il suo rovescio di utilizzazione bellica).
Sgalambro propone una morale «della compassione», ma di una compassione liberata da qualsiasi intimismo e praticità. Si tratta di una compassione «inutile», «che lascia l’individuo com’è», e perciò consente di intuire che «la propria vita è per l’altro un tutto e che vi è compresa la fine che tosto sopravverrà». Tale compassione, dunque, «non è un viatico». Sgalambro conclude: «Chi vuole cambiare l’altro, lo perderà».
È facile avvertire al di là di queste affermazioni la presenza incombente di Schopenhauer: Sgalambro non la nasconde. La sua originalità consiste nel modo in cui la riflessione romantica del Mondo come volontà e rappresentazione viene giocata contro tutti i residui di idealismo e di neo-idealismo, di positivismo e di neo-positivismo che ingombrano la scena filosofica contemporanea, anche con l’aiuto di alcune citazioni da Proust e da Hobbes.
È vero che il titolo del volume, La morte del sole, suona come quello di un’apocrifa operetta morale di Leopardi, e leopardiano è il colore della riflessione che esso adombra.
Così, l’eleganza stilistica che ne segna da cima a fondo ogni pagina, la musica sarcastica e agra, la tentazione di un’aforistica aguzza e appassionata, e anche le vaghe figurazioni cosmologiche che vi trapelano, richiamano il magisterio di colui che scrisse il Dialogo della natura e di un islandese. Ma non dobbiamo dimenticare che Sgalambro è nativo di Lentini: siamo nella Sicilia orientale, la Sicilia dove i fenici portarono, scrisse Brancati, non il cavillo e il concettoso elucubrare, ma la malinconia e la commedia, l’inganno e il piacere della rappresentazione. Sgalambro è uno scrittore che procede per ellissi, per brevi segmenti, per scorciatoie. Al fondo del suo ragionare c’è una negra malinconia, ma anche l’astuzia a cogliere e smagare tutte le commedie e le «rappresentazioni» con cui gli uomini giocano a nascondino sulle soglie della verità.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *