Manlio Sgalambro in La Sicilia, 12 dicembre 1987, p. 3
Meditazioni provinciali
Che in un simile mondo si possa giuocare risulta a prima vista incomprensibile. (Mentre, che tutti lo capiscano, non depone a loro favore). Nel giuoco infantile c’è una sorda cupezza, un tacito riconoscimento che consegue a un incipiente rimorso. Attraverso il destino che incombe su ogni joujou – presto giacerà distrutto – si rivelano la futura ferocia dell’innocente e la incommensurabile serietà del mondo. È come se il bambino lo sapesse. Così seriamente egli giuoca. Strano che il mistero del giuoco, che ha sempre evocato ardite ipotesi, sia tutto qui. Si leggono, lo si ammetta, infinite cose nei gravi gesti del piccolo giuocatore. Oggi, con il giuoco, si vorrebbe compensare il rapido venir meno della vitalità per la quale, come un pupazzo a molla, l’individuo, dall’infanzia alla vecchiaia, si scaricava una volta quasi senza bisogno di motivi.
La vita odierna passa invece attraverso una coazione a riflettere. Attraverso la quale perde, finalmente, lo slancio. Essa si rattrappisce quasi che l’immane corrente si riducesse a un fioco rigagnolo. Nelle grandi istituzioni ludiche gli individui sono rimessi in sesto, come in immense officine, pronti per un’altra volta. Poi si vedrà. Il giuoco, dunque, è l’astuzia della vita per perpetuarsi. Si lascia giuocare per tanti anni il bambino – anche se con un senso manifesto di imbarazzo, con un fastidio interno che l’adulto a volte prova inspiegato (e trapela in certe oscure proibizioni) – perché la continuità tra giuoco e vita si mantenga il più a lungo possibile. Così ci immette alla vita col piede ancora alzato, come se si stesse correndo.
Ma un’altra spiegazione è possibile: giuocati dalla vita, gli individui vorrebbero rendergliela per le rime: per questo giuocano. Si entra qui nel mistero della serietà. L’immutabile aspetto di animali e cose è in contrasto col mutamento continuo delle fisionomie. Anzi c’è volto perché rapidamente esso muta. Ma della serietà è venuto ormai il tempo. È come se si avvertisse inoltre, almeno in certi spiriti, una repellenza per il riso attraverso cui il volto si disfa e si intravede il teschio. Nel riso irrefrenabile è concentrata l’insofferenza per l’altro, per il nostro simile, del quale, sempre in guardia, sorprendiamo con esso l’attimo che ce lo dà in mano. Nel riso si rivela che non c’è «prossimo» ma che si è tutti «lontani». Ma qui sta la differenza tra giuoco e riso. Là dove si giuoca, si giuoca seriamente. L’ammonimento di quel filosofo che troppo serio è il mondo perché si giuochi, va tuttavia raccolto. Lo sguardo di quegli spiriti che si fissa sul cosmo e che lì vede il suo posto, e perciò la sua nullità, è confutato dallo sguardo che si impone imperioso solo guardando.
Ma questa serietà e il giuoco della vita non contrastano. Cosa sia però la serietà ha ricevuto meno risposte di quante ne abbiano avute giuoco e riso. S’inclina in essa a considerare, si potrebbe dire presente in ogni attimo, l’evento funesto che diede luogo alla vita stessa. Si vive, sì, ma è un pensum, un triste tema e si continua solo a svolgerlo straccamente. La serietà suppone che qualche grave fatto sia accaduto e s’annidi nel passato. Esso magari non si ricorda o è come se in un solo istante affiorasse e nel medesimo tempo fosse liquidato. Ma in realtà, invece, si installa in noi come quel corvo sul pallido busto di Minerva. L’antitesi che era parso intravedere tra serietà e giuoco tende così a svanire. Ma solo quando il giuoco sia serio come nel bambino, o come in chi segue il corso della pallina con la pistola pronta. Allora sì, allora la serietà e il giuoco della vita fanno tutt’uno.
Alla serietà appartiene la cupezza come un altro suo aspetto. In essa ci si carica di qualcosa che sfugge a definizioni precise: qual è esattamente il peso che grava su noi? Di quale delitto ci si è macchiati? «Il maggior delitto dell’uomo è essere nato»: così ci fu detto con la sobrietà che merita. È questo dunque il fondo di tutta la faccenda. Qui convergono tutti i raggi che si dipartono, perciò, da un unico punto. Ecco perché si diffida normalmente della serietà. Qualcosa di cupo, come si è infine capito, è presente in essa. Il volto dell’uomo serio raggiunge quasi la fissità dell’animale o l’aspetto uniforme di una cosa. Come se perciò si fosse tradito il resto degli uomini. O si seguisse un destino a parte. Nella serietà e nella cupezza, fino all’ultimo istante, v’è come un giudizio di estrema condanna. Infine è come se la vita stessa si mostrasse. Perciò si scappa via da chi sfoggia, senza pudore, questo gravame, e il delitto dell’essere nati gli si legge in faccia. Ma anche un senso di indignata vendetta sembra trapelare da colui sul volto del quale s’è fissata l’orribile maschera. Serietà e giuoco della vita: è questo, e nulla più.