Caffè viennese

Manlio Sgalambro in La Sicilia, 24 dicembre 1987, p. 3

Meditazioni provinciali

In un caffè viennese, com’è noto, si parla di tante cose…

All’origine del delitto. Negli interni borghesi fin de siècle, rischiarati con la fiamma a gas, i lungimiranti abitanti si preparano al buio come se questo dovesse essere eterno. Essi accantonano la luce assieme alle provviste in cantina. L’illuminazione a gas segue piano piano le orme della luce del giorno. A prima vista non vi si cela niente di pauroso. Solo si nota qualcosa di sinistro quando prende il sopravvento, a notte inoltrata. Il borghese conduce i suoi figli a vedere i lampioni accesi, come al luna park. Felici i bambini guardano i mille guizzi di luce. Ma presto tutto svanisce. Non c’è più aria di festa attorno alla luce dei lampioni. Al livido lucore appaiono invece Fantômas e Jack lo Squartatore.
L’assassinio, la cui traccia metafisica Poe seguì con tenacia, rappresenta, nella sua chiave ultrasegreta, il modo come tutti moriamo. Il fatto che Poe distingua gli assassini dalle vittime non è che un tributo pagato al progetto letterario in cui è invischiato. Ma Max Bense ha scoperto, in Eureka, che l’assassinio è già contenuto in quello che Bense stesso chiama il “principio ontologico”: «Nell’unità originaria della cosa prima, sta la matrice di tutte le cose e… la predisposizione al loro inevitabile annientamento». In ciò il segreto della morte è svelato in collegamento al delitto: tutti moriamo assassinati.

Fine della favola. «Così va il mondo» – con queste parole si conclude una favola dei Grimm e smentisce malinconicamente la favola. Castelli incantati, streghe e fatine, gnomi e animali parlanti, tutto sparisce alla fine e resta il “mondo vero”. «Tuttopappato, aveva già sulla lingua il povero topo; come gli uscì di bocca il gatto fece un salto, l’afferrò e ne fece un boccone». Così, nel mondo della favola, finisce come nel mondo vero. Non è nel mondo vero, infatti, che il lupo muore ammazzato e Cappuccetto Rosso torna a casa, come tiene a dire il bonario favolista, “felice e contenta”?

Animo di filosofo. La cupezza dell’animo, quella profondità tenebrosa che Tacito ritrova nel tiranno, è pure, ma ciò forse non è strano, nel filosofo che nessun altro male commette che il male della conoscenza. Eppure attraverso questa si raccolgono, e vi si danno ricetto, malvagità e tradimenti. Da questo demone egli è perseguitato e deve seguirlo anche nel peggio. La crudeltà del conoscere non risparmia quegli esseri di cui egli deve incalzare le speranze che nascondono, come bambini, nei luoghi più impensati. Il male della conoscenza straripa oltre gli effimeri limiti attraverso cui si proteggono beni e affetti. La luce che si vuole spanda attorno a sé la ragione non illumina solo prati ridenti, gai animali che giocano o esseri umani che si rotolano abbracciati. Questa stessa luce che li illumina, li brucia.

Ospedale di notte. Negli ultimi momenti della vita, qualcosa allontana per sempre dai teoremi solenni, dal finalino sublime. Gli occhi cadono invece sulle cose più fruste e si assiste alla propria fine in un rozzo ospedale contemplando dei luridi calzini.

Quando parla il filosofo… Dietro ogni idea che espone si cela sempre qualcosa di imperioso, un “tu devi pensare così” che rende gli altri superflui. L’ambizione di un pensatore è di dare tutte le ragioni. Ma non ci si inganni, perché questo equivale a dire: “tu non ne troverai altre; ho fatto già tutto io”.

Hoppla, wir krepieren! L’aculeo della morte, come stato d’animo di ciò che avveniva in definitiva dell’individuo, è ormai spuntato. Scomparso è pure (segno che il morente ha perso già ogni valore) il nuncius mortis, colui che lo avvertiva con garbo, secondo i dettami di una buona ars moriendi. Il termine morte si riferisce nostalgicamente al tempo in cui l’uomo poteva dirsi veramente vivente. Oggi l’individuo viene distrutto. Nessun altro termine indica più di questo la crudele aggressività di ciò che si scatena contro di lui: per dir così la ferocia con cui qualcosa lo calpesta e ne fa scempio. Nessuno più muore, dunque; nessuno approda più a questa mitica pace.
«Il morente non ha più status, perché non ha più valore sociale», asserisce uno storico della morte. Al contrario: chi muore è ormai solo un rapporto sociale. Chi muore cade nell’assoluta disponibilità degli altri che lo artigliano col ricordo e ne fanno quello che vogliono. Diventa una rappresentazione dell’altro. La morte dimostra anzi che lo è sempre stato. La ferocia del socius si può allora mostrare assieme alla pietas. L’ironia della proustiana Recherche si nota quando Proust collega l’immagine di chi fu, al sapore di un biscotto o al tintinnare di un cucchiaino ai bordi di una tazza. Qui si ride di Platone. Subentra allora la miseria del ricordo in cui si dovrebbe ritrovare per sempre. Ma ne La prisonnière, descrivendo la morte di Bergotte, Proust è per un momento tentato: «il pensiero che Bergotte non è morto per sempre… non è completamente incredibile». Più esatta è la risposta che gli fu data a suo tempo: «Banquo è seppellito; non può uscire dalla sua tomba». In realtà Bergotte è morto sin dal momento in cui non esiste più che per gli altri. La consolazione evocata per un momento da Proust, perde ogni appiglio: niente può consolare della morte e la morte non può consolare di niente.

Prodigi. Quando la spinta vitale s’è ridotta al minimo, c’è più spazio, au fond, per la filosofia. In tali circostanze non si descriverebbero però – si obietta – la vita für ewig, la sua struttura, il modo come funziona, ma una vita circoscritta dalle particolari condizioni storiche espresse dai tempi “disperati e infelici” seguiti al fallimento di queste o quelle speranze. Quando infatti dai semi di zucca nasceranno manzi sarà differente.

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