Trattato dell’empietà

Manlio Sgalambro, Adelphi, 1987

«Osservare freddamente Dio – caldamente, lo fu già abbastanza». Per questa impresa, che è già in sé un’empietà, Sgalambro si è scelto come invisibili protettori quei grandi teologi dimenticati, come Suárez o Melchor Cano, che sapevano trattare di Dio con cupa professionalità. Qui, come ancora in Spinoza e in Schopenhauer, Dio torna a essere il mondo nella sua profonda estraneità, nella sua avversione al soggetto, che attacca fino a ucciderlo, nella sua controfinalità. Mentre oggi la filosofia dei disincantati è diventata almeno altrettanto consolatoria della filosofia dei bigotti, e per essa, alla fine, tutto va bene perché tutto è ugualmente infondato, il fosco sguardo del teologo fa risorgere il mondo quale alterità nemica, quale rocciosa resistenza al pensiero, quale catena delle cause che stringe in una morsa, «come una costrizione fisica».
Per praticare questo superiore «cinismo teologico» non occorre devozione, fede e sentimento, ma la capacità di guardare attraverso un vetro tentando di vedere il vetro, l’arte di «pensare contro se stessi», di avvolgersi nella vita della mente come nell’unica vera che ci sia concessa. Si traccia così una teologia non religiosa, oggi possibile «come ieri le geometrie non euclidee». E le figure del passato – si tratti di Proust o di Plotino, di Warburg o di Mauthner, di Renan o di Hegel – vi appaiono impigliate in un nuovo ordine di rapporti, che è illuminante. Un pensiero di questa specie non può che essere solitario all’estremo e risultare impenetrabile per chi è fedele all’«oscurantismo dell’illuminismo». Ma la superba asprezza di questo libro apparirà salutare a chiunque rifugga quei «tiepidi» che costituiscono gran parte della filosofia contemporanea.

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