Dio c’è, ma è anche peggio di noi

Mario Andrea Rigoni in Corriere della Sera, 24 gennaio 1988, p. 17
(recensione a Manlio Sgalambro, Trattato dell’empietà)

Filosofia / La teologia senza religione di Manlio Sgalambro

In «Improvvisamente l’estate scorsa» Violet Venable evoca l’orribile spettacolo al quale assistette insieme col figlio Sebastian su una spiaggia delle isole Galapagos, dove una generazione di tartarughe marine, appena uscita dall’uovo, mentre tentano disperatamente di raggiungere l’acqua, vengono assalite, squarciate e divorate da una miriade di falchi che riempiono il cielo del loro grido selvaggio. Fu proprio in quell’occasione, narra Mrs. Venable, che il suo adorato e perduto Sebastian disse di aver veduto il volto di Dio.
Questo racconto, che mi ha sempre colpito nel dramma di Tennessee Williams come poi nel film di Mankiewicz, potrebbe costituire un perfetto esempio di «teologia naturale» e mi è tornato alla mente leggendo il singolare libro di Manlio Sgalambro appena uscito da Adelphi, benché poco questo conceda alla letteratura e anzi si presenti, fin dal titolo, nella forma di un’astratta, e talvolta persino tecnica, meditazione. Se raschiamo dall’idea di Dio il sedimento delle bugie filosofiche e delle consolazioni umanistiche, ci troviamo di fronte qualcosa di spaventoso, che altro non è che il mondo stesso come bruta e trionfante «controfinalità universale».
Chi abbia avuto almeno una volta la rivelazione che «Dio non è diverso dal mondo», che «il mondo è esattamente ciò che appare» e «in sé è ancora peggio», difficilmente potrà essere indotto alla devozione, perché crederà «a Dio ma non in Dio», si compiacerà di dimostrarne l’esistenza, «ma assieme alla sua bassezza» (Sgalambro rinfaccia allo stesso nume tutelare delle sue pagine, a Spinoza, l’«amor Dei intellectualis» come un’onta).
È così che, liberato il campo dagli equivoci della teologia catafatica e apofatica, della filosofia della religione, della fede in un Ente personale e trascendente, come del resto dal nonsenso dell’ateismo, si prospetta una teologia della freddezza, dell’empietà e del cinismo, in cui Dio si dovrebbe scrutare, oggetto tra gli oggetti, con una distaccata precisione da entomologi o da mineralogisti.
Se il Cristianesimo, almeno, ripone la salvezza nella fede religiosa anziché nella conoscenza teologica, la riflessione di Sgalambro rovescia doppiamente e scandalosamente questa posizione: non c’è liberazione, come non c’è nobiltà, se non in una teologia senza religione, che implica l’allontanamento sdegnoso dall’impurità del Principio e il rifugio nel solitario ordine della mente.
Resta il fatto che il libro di Sgalambro (scritto in un’aguzza e rara prosa aforistica, di ascendenza adorniana) tocca un livello di realtà al quale nessuno oggi in Italia sembra essersi avvicinato ed è, nello stesso tempo, sintomatico come pochi altri di quella glaciazione del pensiero verso la quale la nostra epoca è fatalmente trasportata. Non a caso La morte del sole è il titolo del precedente, e altrettanto superbo, libro di questo autore, al quale non è difficile pronosticare quel privilegio dell’isolamento e del vuoto che viene riservato a tutti gli enunciatori di duri e insopportabili pensieri.

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