Sgalambro semina terrore

Franco Marcoaldi in La Repubblica, 27 marzo 1990, pp. 38-39
(recensione a Manlio Sgalambro – Anatol)

“Anatol”: il nuovo saggio del filosofo siciliano

Volendo compilare un catalogo di filosofi eterodossi dell’Italia contemporanea, Manlio Sgalambro avrebbe diritto a un posto in prima fila. Appartato, enigmatico, impossibile a collocarsi in qualsivoglia scuola, padrone di un particolarissimo timbro espressivo sarcastico e tagliente, è un pensatore che desta ora, oltre che interesse, curiosità. È lui stesso in qualche modo a alimentarla definendo Anatol (Adelphi, pagg. 167, lire 12.000) – una sorta di «doppio» dell’autore protagonista-filosofo del suo nuovo libro come «un pacifico, con l’aria di un conciapelli in vacanza».
Ma a meno di non volerne aggiungere del proprio in un esercizio di fisiognomica fantastica, la cosa finisce lì, e dunque la nostra curiosità resta inevasa. Bisogna allora accontentarsi delle due righe nella quarta di copertina che lo vogliono nato a Lentini nel 1924, e poi esordiente della «terza età», nel 1982, con La morte del sole (Adelphi). Esordio anch’esso inusuale visto che il dattiloscritto, sembra, arrivò alla casa editrice milanese senza presentazioni o raccomandazioni di sorta, cosa in questo paese piuttosto rara.
L’attenzione di quel libro, come del successivo Trattato dell’empietà (sempre Adelphi) – testi indispensabili per comprendere lo scenario di fondo in cui si inscrive questo nuovo lavoro – era incentrata su quella che Sgalambro (ma in questo non è ovviamente il solo), considera la Grande Rimozione della filosofia moderna: la ricerca della verità. Detto bruscamente, e quindi a palmi, il pensiero filosofico agirebbe così per eludere quel terrore che l’insensatezza della realtà produce. È quanto fa l’illuminismo (che prova a guardare il mondo con distaccata sobrietà) e poi l’idealismo (che procede addirittura all’abolizione del mondo stesso). Ma il terrore, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra grazie alla scienza moderna che svela la natura dell’universo come «immane mostro acefalo» decifrabile solo attraverso il linguaggio dei numeri. Da allora, scrive Sgalambro, ha origine quel «lutto matematico» che avvolge le cose: «un pensiero, che da quando è il più reale – in quanto fare, creare, produrre – non ha più realtà». Sic rebus stantibus non resta che prendere di petto il terrore stesso. Come? Osservando Dio («freddamente, ché caldamente lo fu già abbastanza») nella sua totale estraneità e avversione al soggetto, attraverso un «cinismo teologico» fondato sull’uso spietato della mente, contro l’immagine consolatoria della filosofia del disincanto per la quale tutto va bene perché tutto ugualmente infondato.

Sono pensieri che ritornano, a giri larghi ma persistenti, in Anatol, un libro di difficile decifrazione, affidato com’è al racconto di una mente che non si ferma di fronte a nulla. E che è dunque disposta ad affondare nel terrore e nei deliri che produce. Ne risulta un testo disordinato, ulceroso, freddo, aristocratico. E assoluto. Perché assoluto è il compito di chi è lì per pensare (diceva di avere solo doveri filosofici). Ma ne risulta soprattutto un libro contro. Contro i filosofi, insultati senza alcuna remora e non sempre con discernimento: da Cassirer, considerato uno «stolido» a Gadamer, qualificato come un «imbecille», allo stesso Nietzsche, «che rimesta passioni popolari». Contro la «sincerità», che mostra «tutta l’angustia dell’uomo» affidato al solo «sentire», mentre è l’abbandono alla riflessione che fa sciogliere gli ormeggi consentendo di oltrepassare la vita individuale. E ancora, inevitabilmente, è un libro contro l’ermeneutica, la quale presuppone un filosofare aperto, dialogico, dubbioso, mentre con Sgalambro siamo nel mondo dell’aut-aut. «Non c’è sapere, se non definitivo». La verità è una. O hai ragione tu o ho ragione io: «Duro e ributtante è il rapporto con la verità. Essa contrassegna il tradimento della specie; perpetra, lasciatemi dire, il tradimento del genere umano che certamente la verità ha in odio: difatti lo distrugge». Discendono da qui due ultime avversioni. La prima, contro i nostalgici della «vita palpitante», che non si sono ancora accorti di vivere nell’epoca della «pax technica», dell’uomo-cosa, della volontà del singolo (e chiari sono i rimandi allo Junger di Oltre la linea). La seconda contro la figura dilagante del filosofo-letterato, ignaro del fatto che la «filosofia è prosa, governata da leggi crudeli».

Ma con ciò siamo arrivati anche alle questioni che Sgalambro non risolve. Perché tanto salutare è la lettura finché l’autore demolisce i luoghi comuni del filosofare contemporaneo, tanto lascia perplessi se si rovescia il guanto per cercare indicazioni nel suo pensiero. Un po’ come accade a volte con Cioran che anche se non viene, mi sembra, mai citato, è in realtà il parente più prossimo del filosofo siciliano e del suo «disfattismo».
Si attacca così la «poesia filosofica», ma proprio questa risulta essere la cifra stilistica di Anatol. Si pensa alla filosofia come teologia tesa a pronunciare «settantamila volte» la parola Dio, e altrettante «avversarla», dimenticando che quello stesso Dio maligno un qualche spiraglio deve pure averlo lasciato aperto se allo stesso Sgalambro è dato di pensare e di gridargli contro. E infine si contrasta, e legittimamente, la Grande Rimozione del terrore finendo però poi per rimanere intrappolati dentro una attesa della morte che suona anch’essa, in qualche modo, come una scorciatoia del pensiero.
Se con Sgalambro precipitiamo in una dimensione tragica ed eroica non è allora forse più tragico ed eroico, e vero, quell’invito di Montaigne ad imparare a morire per imparare a vivere? «Desidero si agisca e si allunghino gli affari della vita finché si può, e che la morte mi trovi mentre pianto cavoli, ma noncurante di essa e ancor meno del mio giardino non terminato».

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