Sgalambro: «Anatol sono io»

Mario Andrea Rigoni, Corriere della Sera, 15 aprile 1990, p. 4
(recensione a Manlio Sgalambro, Anatol)

Novecento

Rispetto ai due libri precedenti, La morte del sole e Trattato dell’empietà, questo ultimo di Manlio Sgalambro, Anatol, pagine 167, lire 12.000 pubblicato da Adelphi, si distingue per un carattere meno compatto o, almeno, più rapsodico, quantunque tutta la meditazione sia ricondotta, nella forma di una cronaca mentale che ricorda Monsieur Teste, al nome di un personaggio: Anatol, evidente alter ego dell’autore.
Invece di ruotare intorno a un unico tema, Anatol si abbandona a un flusso di pensieri, considerazioni, «precetti» assai vari, che dei due saggi o trattati anteriori costituiscono di volta in volta una variazione, un’applicazione o uno sviluppo. Nello stesso tempo il libro dà l’impressione di volerne isolare il precipitato, di fornire – sotto specie di breviario, distaccato o ammiccante, ma sempre perentorio – la quintessenza di una visione. Ciò può forse spiegare perché, tra le affermazioni astratte, si accenda in certe pagine il tono lirico. È evidente che questa volta Sgalambro si avvicina più che mai alla condizione di scrittore o poeta della propria mente: una ragione ulteriore perché non gli si faccia il torto di «riassumere» il suo pensiero. Ma non gli si farà neppure quello di tacerne la qualità.
Essa si manifesta innanzitutto in una passione inflessibile per la pura teoria: psicologia, morale, società, insomma tutto l’universo della «pratica» resta escluso dal suo orizzonte, come oggetto considerato inessenziale, se non addirittura indegno. Già questa prospettiva basta a creare, oggi, un’eccezione e una provocazione felice.
Ma Sgalambro, che evochi la distruttiva trascendenza della bellezza o discorra della misteriosa origine del bene, che sogni la regressione alla quiete inorganica o accenni alla propria cinica, blasfema teologia di impronta spinoziana, in ogni caso dispiega un’impavida outrance intellettuale che non può non far apparire ancora più tiepide quelle filosofie attuali dalle quali siamo quotidianamente afflitti attraverso i giornali non meno che i libri (un loro «maestro» viene, in Anatol, seccamente tacciato di «imbecille»).
È la crudeltà filosofica, la volontà di guardare risolutamente verso il fondamentale e l’estremo, l’aspetto più notevole e interessante di Sgalambro, anche se la delicatezza o l’enormità degli argomenti scatena in questo libro qualche incongruità, qualche vezzo, qualche stonatura.
Il ribaltamento delle prospettive consuete forse più sorprendente si opera nelle enunciazioni sulla tecnica. Instancabilmente analizzata e denunciata da tutti quale male sommo del nostro tempo, anzi quale essenza nefasta dell’intero Occidente, la tecnica viene invece vista da Sgalambro, erede e vindice delle Decadenze più dure, come «via occidentale del nirvana», redenzione dall’orrore della vita e dell’anima, assimilazione all’apatia beata della «cosa»: «L’era della vita», che si pensò interminabile, e su cui vigono tuttora strani pregiudizi, finisce. Vivono le piante, gli animali, a cui si rivolge con pena lo sguardo dell’uomo d’oggi. Essi ancora vivranno, sopporteranno lo stridore dei giorni, la beffa di nascere e morire. Ma l’uomo si spegne. Finisce il dolore che indicò che lì c’era ancora del vivo, una massa di carne. Al posto di essa, l’acciaio; le leghe che indenni percorrono lo spazio […]. Chi non sopporta di essere cosa, manca il suo attimo. Ha perso la sua destinazione, smarrita nel passato o nel futuro. Nell’acciaio noi troviamo noi stessi».
Co(s)mico e civettante, profetico e inane, pervaso da una fredda, forzata euforia, questo libretto lascia intravedere la fisionomia di quell’epoca post-storica e post-umanistica alla quale siamo avviati con disperata serenità.

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