Devozione allo spazio

Manlio Sgalambro in Giuseppe Raciti, Dello spazio, C.U.E.C.M., 1990

La cogenza dell’atto di leggere imprimerebbe a ciò che si legge il suo stesso suggello. Ma come uno ne esce veramente non è deciso da abitudini mentali o dalle proprie viscere ma dall’accanito agire del pensato. Più il nucleo di pensiero resiste, più ci perseguita. Chi legge come si deve si espone a un danno. Ma egli legge come si deve perché qualcuno pensò come si deve.
Se l’attenzione non deflette ritroviamo lo spazio sin dall’inizio. Quanto s’è parlato della prossimità! Quante parole inutili! La distanza tra due esseri non sarà mai abolita. Lo spazio sarebbe, giusto la definizione raccolta da Kant e riproposta in proprio, possibilità di coesistenza. Non appare, ma eguale è l’intuizione di spazio che sta alla base della morale kantiana; l’estetica trascendentale, per così dire, dell’etica. La possibilità di coesistenza è infatti il taciuto della morale kantiana che, in obbedienza alla purificazione dell’empirico, non mostra tutte le sue carte. Lo spazio assicurerebbe la stessa socievolezza e in ogni caso farebbe coesistere cose ed esseri empirico-razionali e gli esseri empirico-razionali fra loro. Lo spazio, come possibilità di vicinanza, garantisce gli elementi estetici sui quali opera l’analitica morale. Esso già assicura quella unità su cui operano ulteriormente gli imperativi come vere e proprie categorie. Infatti gli imperativi sarebbero vuoti senza l’intuizione avvicinante dello spazio. Ma questa visione non coglie l’elemento determinante dello spazio. Lo spazio, cioè, come allontanamento, dispersione, distanza, su cui insiste l’autore di questo libro intelligente. Una certa devozione allo spazio ci induce però a resistere alla tentazione di aderire alla tesi che lo spazio è, esso medesimo, il dominio della volontà. Abbiamo immaginato questa analisi. Un quadro occupa uno spazio la cui intelligibilità ne resta lesa. Ne deturpa la purezza. Ma l’atto di occupare è l’atto stesso di esistenza. Senza quest’atto il quadro non esiste. È solamente là. Lo spazio dunque respinge il quadro. Se ne avverte la resistenza allorquando gli occhi che tentano di posarsi su di esso sono invece sospinti a forza sul suo rapporto con lo spazio. Ecco che allora tutto si sovverte. Non è il quadro to timiòtaton, ma lo spazio che lo invade e lo soverchia da tutti i lati. Il quadro allora diventa l’occasione perché lo spazio si mostri. Si rovesciano le parti. Il quadro esordisce da protagonista riducendo lo spazio a un mezzo. Ma di colpo lo spazio si scrolla d’addosso il quadro che inizia la sua misera esistenza. In effetti chi non ‘vede’ lo spazio non vede nemmeno il quadro. Lo sguardo che vede lo spazio è legato al suo vuoto. Esso non vorrebbe che fosse mai occupato. Il vuoto dello spazio è il richiamo che esso esercita sull’individuo.
All’inizio non c’è altro che lo spazio. Il quadro non è nemmeno ‘visto’. Lo spazio e solo ci interessa.
L’individuo se ne sente avvolto, avvinghiato. A poco a poco vi si distende, vi aderisce, diventa un essere geometrico. Qualsiasi quadro offende lo spazio. Turba il grande vuoto che ci invia il suo appello. Il quadro dunque è un disturbo, un inceppo, un graffio magari, un segno comunque che la solennità di questa sovrana omogeneità è turbata. Si crea dunque uno squarcio, una infruttuosa ferita, nel tessuto dello spazio. Il quadro nasce come una malattia dello spazio, un’escrescenza velenosa, un attentato alla sua divina integrità. Ma solo se questa offesa si realizza, solo se un quadro ha questa forza di lacerare il suo ordine segreto, allora il quadro esiste. Altrimenti lo spazio l’inghiotte, lo ricompone nella immensa pace, senza increspature, della sua superficie.
Le arti spaziali lottano dunque contro lo spazio che minaccia di incorparle. Un quadro deve anzitutto affermarsi davanti allo spazio. Da un lato esso sottrae spazio, incorpora spazio, come se volesse in qualche modo diminuirne la sorgente inesausta. Dall’altro sembra che ‘doni’ spazio. Fermiamoci qui. In questo complesso scambio sembra il punto più fermo. Un quadro riesce allorquando dona spazio. Allorché non ruba lo spazio, ma lo aumenta. Così lo spazio ora lo accoglie, gli dà ricetto, una nicchia. Lo accoglie dentro se stesso. Esso vi scompare. Fa ormai parte dello spazio. Non come prima, però, quando lo spazio lo cancellava con un gesto indifferente. Adesso lo spazio lo accoglie. Esso diventa, in qualche modo, un punto d’onore dello spazio, un suo luogo privilegiato. Ma in tutto questo agisce ancora l’essenza dello spazio. Come se un abisso fosse al di dentro di esso. Infine, ciò che è accolto dallo spazio vi scompare. Così l’opera d’arte ha a che fare con lo spazio o può essere solo un segno avvilente, una cattiva macula, una disomogeneità senza importanza e scomparire nello spazio come in un cesto di rifiuti. Oppure si annulla nello spazio ma nel senso che anch’essa ormai ne fa parte. Che lo spazio l’accoglie e la benedice. Questo sprofondare nello spazio, e la sua accoglienza, è la nobiltà di un quadro: immaginiamo lo spazio non dissimile dalla nolontà…
Questo sorprendente essai esce fuori dalle tiritere consuete. V’è in esso una squisitezza senza di cui il pensare non oltrepassa la funzione fisiologica e lo possiamo lasciare tranquillamente dov’è. Siamo sempre colpiti dall’‘ingiustizia’ di un pensiero che ci viola, che vuole toglierci la nostra verità e installarvi la propria. Ma in questi luoghi si regna uno alla volta.

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