Il coraggio di pensare

Pietro Barcellona in L’Unità, 14 aprile 1990, p. 21
(recensione a Manlio Sgalambro, Anatol)

Con l’ultimo libro del filosofo Manlio Sgalambro, «Anatol», nasce un caso nella cultura italiana. Ma la critica lo ha già «schedato» come heideggeriano

Manlio Sgalambro non si è fermato al primo libro La morte del sole, uscito improvvisamente dopo 57 anni di silenzio: ne ha scritti già altri tre, il Trattato dell’empietà, sempre con Adelphi nell’87, poi Del metodo ipocondriaco, con il Girasole, e adesso ancora con Adelphi Anatol. Non si può più trattarlo come un «caso», bisogna prender partito. La furia classificatoria è già all’opera, sì trovano le parentele, le affinità, Cioran, Junger, Heidegger, il pensiero negativo, i Francofortesi, ecc. La sistematica filosofica è all’opera. Ma Sgalambro non è un filosofo nel senso della «tecnica» della rappresentazione certificatoria e dell’interpretazione allusiva; è un individuo che si assume la responsabilità di costituirsi nell’atto eccezionale del pensare, come atto del «separarsi» da ogni consolatorio abbraccio con l’essere, con il mondo, con la cosa, da ogni tentazione di addomesticamento, da ogni dubbiosa compiacenza, da ogni astuta problematicità.
Per Sgalambro la filosofia è stata finora strategia di fuga, una storia di esorcizzazioni dal terrore incombente del cosmo, dall’evidenza del suo controfinalismo. È stato un tentativo vano di istaurare una mediazione, di costruire una metodologia della certificazione dei fenomeni odi abbandonarsi alla virtuosa interpretazione che risarcisce della parola perduta e riduce il testo a un pretesto.
Lo filosofia moderna in special modo è dubbio, problema, disincanto, vertigine dello sprofondamento, voragine dell’origine indicibile, ineffabile, inafferrabile. Perciò è sempre in definitiva consolatoria, rappacificante, conciliante, discorsiva, dialogica, in cerca di compagnia e di convalida.
Il pensiero. invece, per Sgalambro è figlio del terrore, il terrore di esistere in un mondo che non sta solo di fronte, ma contro (ogni spirito creatore porta con sé il rammarico di esserlo); il terrore che nasce dall’evidenza pubblica della verità (che invano si cerca di rabberciare introiettandola come legge morale, privata o come angelo custode).
Il terrore è la consapevolezza che non c’è volontà di vita che tenga, che la vita non riesce mai a stare alla pari con la morte che ci ossida lentamente fino a pietrificarci. Questa schifosa, insopprimibile realtà dell’inorganico che ci condanna a tornare all’essere, che ci tiene sin dall’inizio in sua balla, che ci opprime, ci limita e alla fine ci divora come un ammasso di tarme invisibili divora le nostre biblioteche. E contro cui nulla ci è dato fare se non prender le distanze, mettere la mente al riparo dalla rovina dell’essere che comincia ad assediarci dalla nascita. Venire al mondo, nascere vuol dire provare questo terrore, questa impotenza di fronte a un’origine perpetua che ci richiama alla sua dipendenza, alla sua inclusione annichilente, alla dispersione per confusione inorganica.
Perciò l’individuo che istituisce la propria mente come luogo dello sguardo spietato e del disprezzo dell’essere che tutto divora, che respinge ogni amore onnivoro e pervasivo, pensa anzitutto di liberarsi di ogni Padre e di ogni Dio. Si educa all’empietà perché essendo consapevole che ogni cosa toma all’origine, ma che proprio l’origine è indegna di accogliere la rabbia di esistere e l’arroganza del pensiero, perciò stesso ne reclama la condanna senz’appello. L’empietà è il giudizio con cui lo stesso principio è condannato. Solo l’individuo che ardisce di pensare di fronte al «terrore» riesce a non essere completamente in balia di Dio, perché l’individualità della mente eccede, non è riducibile alla normale accoglienza dell’essere, non si lascia né mediare, né conciliare. L’individuo empio si difende tenacemente persino dal pericolo di diventare uomo, di rivendicare dignità e rispetto in nome del suo rapporto originario con l’essere: conserva solo la dignità del soccombente che consiste nel poterlo dire e non essere smentito.
Tutta la filosofia contemporanea è una lunga catena di empietà taciuta, di metabolizzazione liberatoria culminata nel come se, nel trattare la menzogna come verità e la verità come menzogna, in un gioco infinito di specchi trasversali.
Perciò il pensiero di Sgalambro è tutto il contrario delle appaganti filosofie dell’essere come totalità inclusiva, come spazio infinito e come tempo eterno che definisce a sua volta gli spazi e i modi in cui gli enti accadono e si combinano nella reciproca manipolazione del divenire tecnologico.
L’essere heideggeriano sta prima e oltre e, allo stesso tempo, dentro ogni ente che accade nel suo seno, coabita e accoglie l’«eccedenza» degli enti e quindi anche l’eccedenza del pensiero che, cercando prove confortevoli del suo esserci, trova la sua ultima dimora. L’essere è la vera tomba del pensiero.
Per l’essere heideggeriano e di tutta la filosofia della presenza come dell’ermeneutica dello svelamento, dell’essere che si dà nascondendosi, l’eccedenza è fittizia, apparenza senza soggetto individuale, senza responsabilità e senza altra eticità che non sia retorica del riconoscimento dell’essere e della falsa generosità del con-essere. La differenza ontologica è l’arcadia che allude all’armoniosa identità delle gocce d’acqua. Perciò disprezza la metafisica che è responsabilità del pensare di fronte all’oggetto, che è Dio, il mondo nella loro assoluta controfinalità rispetto all’individuo. Sgalambro, al contrario, rimette in campo la metafisica nel suo significato più pieno come teologia e dogmatica. «Teologo è colui nel quale si compiono il distacco e l’allontanamento da Dio come origine e principio positivo del mondo. Colui che con unico atto della mente lo intende e se ne separa. Con disgusto».
L’itinerario per questo esito e tutto il contrario dell’abbandono alle poetiche intuizioni, alle squisitezze fumose della sensibilità: è il raffreddamento del terrore, stringere i denti e restare calmi; sapere e accettare che il «fine» del mondo non è né a favore della specie, né del cosiddetto senso della vita a cui si abbandonano i cuori palpitanti.
La trascendenza del mondo e della verità pubblica tornano in campo per scacciare la vanità del dubbio che lascia senza ordine una mente nei confronti (di un’origine senza norme il terrore istituisce l’ordine della gelata sui campi di germogli primaverili, quando tutto è rappreso nel grumo freddo del pensiero che prende le distanze dall’avidità dei colori e degli umori virali che ammorbano l’aria.
L’ontologia di Sgalambro è l’ontologia della separazione, del distacco, e persino del disprezzo quando questo è necessario a preservare la mente dalla dipendenza estrema.
Operazione necessaria oggi che la pax tecnica sembra dominare incontrastata, come la rinuncia dell’uomo maturo alla vita selvaggia. La tecnica ci libera definitivamente dalla vita, ci riconsegna alle cose, all’inerzia, all’apatia. Essa vuole redimere la vita, ma la colpisce in profondità, perché ne soppianta definitivamente il dolore e la rabbia. La tecnica è il trionfo del pessimismo mondiale oggettivato nell’ingranaggio delle macchine. E qui l’occhio di Sgalambro si fa improvvisamente acuto e in agguato dell’imprevisto: Anatol spia i fulmini e i terremoti. Indagatori di catastrofi. Del nulla oggettivato. È a questo punto, forse, che si può scatenare la furia selvaggia del «bene». Il bene è, infatti, qualcosa che non dà tregua all’essere come se gli fosse incessantemente contro. Per il bene l’essere, questa carta assorbente cosmica in cui l’individuo scompare nell’oggettivazione senza residui della tecnica, è ciò che non deve essere. Ma il bene non è la vita, perché il bene è tale nel momento in cui ci sorprende e affligge l’idea che un altro morrà. Solo allora si può volere che l’altro non debba morire, che riesca non morendo a reggere per un istante l’urto dell’essere.
Perché in questo scatenarsi del bene si intravede la possibilità che l’altro resista a Dio, non sia inghiottito dalla massa compatta. Il bene, il desiderio che l’altro non muoia è ancora una volta la negazione del Principio. Ma questo desiderio è inutile, dopo un momento tutto torna come prima e di nuovo Dio ci ingoia e di nuovo la nascita ci sorprende e ci beffa.
Solo tra la pax tecnica e la furia del bene c’è forse ancora lo spazio per costituirci come individui. Nel pensare il nuovo terrore freddo provocato dalla macchina che ci sostituisce e, compiendo la nostra «volontà» oggettivata, il nostro rifiuto della vita, ci riconsegna ad un nuovo atto del separarci, del prendere le distanze e tornare presso noi stessi: la nostra mente.
Pensiero e separazione, freddezza, calma mentale contro l’abbraccio mortale del sole d’estate che ci trascina nella sua morte cosmica, sono l’atto costitutivo delle esistenze individuali che nessuno può inserire nel catalogo dei buoni sentimenti che ci circondano in quest’epoca di ottuso convenzionalismo conciliante.
Sgalambro è un estremo e ci si può solo chiedere come è riuscito a costruire questa singolare terapia del «raffreddamento»: perché di questo si tratta, della più lucida autoanalisi capace di restituire la calma dell’io inquietata dalle colpe e dalle confessioni
Quando racconta dei suoi antichi compagni di scuola che a Lentini morivano ogni estate di malaria o di tifo, senti che forse i suoi pensieri sullo schifo della morte sono anche dolorosi esercizi di accettazione del «lutto». La calma della mente (di Sgalambro) ci permette di elaborare il lutto matematico del sapere moderno che ha trasformato la realtà nella logica dei numeri e del calcolo infinitesimale.
Come qualcuno ha scritto: la vostra gioia è il vostro dolore senza maschera. Adesso il dormiveglia si è latto giorno pieno: dobbiamo separarci.

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