Manlio Sgalambro, Adelphi, 1991
La peculiarità del pensiero di Sgalambro non è forse mai apparsa così chiaramente come in questo libro, che si presenta come un «cervello messo a nudo», una rete di nervi speculativi, un monologo notturno, continuamente spezzato, fatto di rapide accensioni del pensiero, prima che torni alla sua tenebra naturale. Il contrario della verbosità sistematica, che pretende dalla realtà di essere «una volta per tutte pensiero». Qui invece pezzi sconnessi della realtà diventano pensiero «volta per volta». L’effetto è sconcertante e dà una scossa salutare. Il «metodo ipocondriaco» spregiato da Hegel come qualcosa che, nel migliore dei casi, potrebbe nascondere un «talento poetico», ma non speculativo, viene qui rivendicato ironicamente come il «sangue blu» del pensiero. Quanto al «talento poetico», ne testimonia la tensione della prosa, inconfondibile nella sua mescolanza di pathos e sarcasmo.
Perché mi ostino a definirmi ‘filosofo’ benché né i filosofi mi vogliono né io voglio loro? Perché in questa disciplina, nella sua venerata regola, entrai fanciullo e mai venne meno la mia fedeltà. Per più di cinquant’anni l’ho studiata non distratto da altro. Ne ho carpito segreti e declini, eccessi e dimenticanze. Filosofi sull’altare e poi scagliati giù. Ho assistito al loro regno, e al dominio delle loro idee, e l’ho studiato più che quello di duci e condottieri. Ho avuto amori duraturi, ho imitato modelli (ma come si può imitare l’Idea, ahimè). Sono invecchiato lì dentro. Di essa conosco tre o quattro cose meglio dei miei contemporanei. Non ho altro da aggiungere.