Dell’uomo politico

Manlio Sgalambro in Cronache Parlamentari Siciliane, IX, n. 9, settembre 1992, pp. 20-21

Politica e cultura. Il filosofo Manlio Sgalambro scrive il suo primo articolo dedicato a un tema politico. E lo fa per Cronache Parlamentari, affrontando una questione centrale: il rapporto fra intellettuali e politica

«In politica lo stupore è utile» (Vignerio, Trattato della politica, 1660)

Intendo esaminare l’idea di politica relazione che ne fa professione entrambi in relazione al mio spirito. Essa appare ovvia se vista dall’esterno ma esaminata in rapporto al mio spirito, o ad uno spirito qualsiasi, l’idea che qualcuno si occupi di «me» (costui dovrebbe essere l’uomo politico) mi sorprende continuamente. L’avversità del mio spirito a questa idea è totale.

L’idea che «io» possa essere governato mi dà un senso di offesa e mi sento di accettarla solo per quanto riguarda quei servizi generali che mi assicurano la possibilità di occuparmi delle mie idee o inseguire con voluttà le mie sensazioni. Ma cosi ritengo che debba essere per qualsiasi uomo indipendente e consapevole di sé. Per chi esamini dunque l’idea di politica, essa è relativa a una attività servile. Mi sembra infatti che l’uomo politico null’altro dovrebbe che darsi da fare affinché i membri in genere di una società possano svolgere i loro veri compiti che sono quelli produttivi, creativi, scientifici, artistici, eccetera. Dall’esame della sua idea risulta che l’uomo politico è soltanto un mezzo, mentre se lo esaminiamo dall’esterno esso sembra essere – me ne rendo conto con stupore – un fine. È un rovesciamento non solo paradossale ma grottesco. Secondo il vecchio detto chiunque potrebbe dirigere uno Stato, anche una cuoca. Ma mentre l’uomo politico dovrebbe dunque assicurare tutti i servizi occorrenti a una società – per così dire, fare le pulizie, preparare la tavola e ritirarsi discreto – egli al contrario batte i pugni ed esige che gli altri lo servano. La qual cosa è del tutto strana e curiosa Ma è ancora più strano, per non dire pericoloso, quando l’uomo politico si incarica dell’avvenire, della felicità, dell’ordine, e cose del genere, dei suoi simili. A tale proposito ritengo che si possa condividere questa riflessione di Nietzsche «Ogni filosofia che creda che il problema dell’esistenza sia spostato o magari risolto da un avvenimento politico, è una filosofia per burla» (Nietzsche, Schopenhauer educatore). Condivido, ripeto, questa riflessione E mi pare ridicolo che si possa pensarlo veramente. Tuttavia è proprio quello che pensa l’uomo politico. Almeno quello che sembra pensare. Per l’esattezza la convinzione che un evento politico possa risolvere o rappresentare qualcosa per il problema dell’esistenza è la convinzione oggi dominante.

Qui ha vinto l’uomo politico. Egli è riuscito a persuadere – non soltanto le grandi masse che si possono facilmente convincere di qualsiasi cosa ma anche i pochi – della necessità della politica non per la sola soluzione dei problemi inferiori e più triviali, cosa assolutamente giusta, ma addirittura per la soluzione dei problemi superiori dello spirito. L’uomo politico, come definizione caratterologica, rappresenta l’ultimo tipo di uomo in ordine al “valore”. In altre parole, ove ci fosse una gerarchia umana uomo politico occuperebbe l’ultimo posto. La trivialità dell’aspetto – egli deve somigliare a chi rappresenta: «aggregato di bocche, nasi, barbe e pance» – incredibile gergo, più squallido di quella degli idraulici o dei netturbini, il linguaggio ridotto altrimenti a melassa, il politico è “l’ultimo uomo” di cui andava a caccia Nietzsche. Così finisce la civiltà occidentale: «Not with a bang but a wimpier» (Eliot, The hollow men).
Vorrei far notare come l’immagine del potere politico presso gli indiani Nambikwara dove «le cariche del comando si presentano con colori poco seducenti» (Lévi-Strauss, La vita familiare e sociale degli indiani Nambikwara, Torino 1970, p. 127) e il potere è spesso rifiutato dai designati perché implica un numero servizio alla collettività, prefigura quello che dovrebbe essere quel minimo di potere che al più una società illuminata e giusta potrebbe consentire. Tantæ molis erat
Ma tornando all’idea di uomo politico in rapporto allo stupore che desta, mi sembra strana un’altra idea corrente, quella che l’uomo politico debba essere «onesto» – con ciò si intendono cose assai confuse – anche dal punto di vista morale. (Dal punto di vista del codice penale, non discuto). Quando proprio in questo si mostra la natura da «servo» dell’uomo politico. (Che il servo rubi sulla spesa è notoriamente un topos). Ciò che vorrei, però, è che egli, come l’illustre Mirabeau, rubasse secondo l’idea. «La venalidad de Mirabeau – scrive Ortega – fue siempre articulada con la trayectoria de su táctica política, y no era más que un ingrediente de esta» (Ortega, Mirabeau o el politicoObras, III, p. 614).

Un’altra idea però a volte mi turba e per dovere verso l’analisi stessa dell’uomo politico credo di avere l’obbligo di dirlo. Potrebbe darsi che tutto ciò appartenga al nuovo politico in quanto essere incarnato E che di lui si possa percepire come Lutero nel commentario alla lettera ai Galati ebbe a dire di Cristo: «Omnes prophetæ viderunt hoc in spiritu, quod Christus futurus esset omnium maximus latro, adulter, fur, sacrilegus, blasphemus, etc. quo nullus major nunquam in mundo fuerit» («Tutti i profeti videro in spirito che Cristo sarebbe stato il più grande brigante, adultero, ladro, sacrilego, bestemmiatore, eccetera che mai sia esistito nel mondo»). Che l’uomo politico assuma, insomma, tutti peccati di una società e che così avvenga di chiunque voglia salvare i suoi simili. Ma questa idea non resiste a una ulteriore analisi anche se la sente un turbamento e una perplessità.
Mentre dunque l’uomo politico dilaga e dilagano i fellah della politica, in alcuni individui si afferma l’idea della apolitia. Di uno stato o condizione in cui ciascuno possedendo se stesso ha il vero potere (l’altro potere, quello dei politici, essendo veramente una forma di impotenza perché è potere sugli altri e non su di sé). Questa sera nostra practica dicono gli uomini della apolitia: estraneità e rapporti fuggevoli. Rapporti con se stessi e rapporti con il cosmo, questi invece vengono voluti e amati.

Al margine sta il rapporto degli uomini tra loro, quello che amministra l’uomo politico. Ma questo è un rapporto insignificante che non tocca nulla di più che la superficie, la scorza dell’uomo. Tutto il resto invece è «horror et divina voluptas».

Con questo articolo Manlio Sgalambro inizia la sua collaborazione con Cronache Parlamentari Siciliane.

Mentre… l’uomo politico dilaga…, in alcuni individui si afferma l’idea della politica. Di uno stato o condizione in cui ciascuno possedendo se stesso ha il vero potere (l’altro potere, quello dei politici, essendo veramente una forma d’impotenza perché è potere sugli altri e non su di sé).

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