La politica dell’indifferenza

Manlio Sgalambro in Cronache Parlamentari Siciliane, IX, n. 11, novembre 1992, pp. 29-30

Intellettuali e politica. Solo il tiranno può realizzare i piani del filosofo, ma l’azione è delitto. Così, mentre il tiranno prosegue sino alla sua stessa fine, il filosofo rinuncia.

Tuttora non ci si accorge del riprodursi della società come cosa maligna, quando invece per tempo ce se ne rese conto per quanto riguarda la natura. La società si riproduce ciecamente, trae da uomini e cose altri uomini e cose che qualsiasi piano si abbozzi tosto essa lo rompe e dilaga come se avesse una esistenza propria che prendesse come una mannaia sul capo di tutti. È la propria esistenza infatti che le interessa. Essa pensa solo a esistere e basta. Che per di più debba essere giusta ecco una pretesa in cui mostriamo di non aver capito nulla della sua natura.

Cosa tenga unita una società, anche questo si è lasciato dietro molte risposte di cui restano unicamente le macerie. Ora come ora, la società sembra solo una lunga abitudine. La sua durata, com’è prospettata anche dalle migliori teste, sgomenta. Ognuno viene duramente richiamato a dare il suo quotidiano tributo. Chi vi si sottrae è l’«asociale» al quale la società mostra il suo vero volto o, peggio, la sua assistenza comprensiva. Le sue carceri pullulano di «ladri» ed «assassini» ai quali insegna il concetto di libertà che essi conoscono bene e per questo gliela toglie. Ma sarebbe non averne capito niente attribuire tutto ciò alla sua «ingiustizia». Essa è quello che è. La società non è «sociale».
Bisogna guardare la società come si guarda la natura dalla quale ci percepiamo ormai svincolati. Notiamo, sì, questo contorno, alberi, animaletti che strisciano o insetti che ci ronzano attorno, l’acqua di un ruscello che scorre, ma che ce ne importa? Lo sguardo scorre su di essi come su un levigato marmo, senza che qualcosa lo fermi. Allo stesso modo si percepisce il proprio stare eretti e il complesso rapporto con le leggi che regolano la gravità, col fatto che l’atmosfera preme sul mio corpo con una forza di un chilogrammo per centimetro quadrato, eccetera, queste leggi, si vuol dire, non sono certo presenti in persona, insomma esse sono cadute nell’indifferenza e quando diventano tematiche sono tutta un’altra cosa. Così lo sguardo maturo si poggia sulla società. Gli esseri che ci passano accanto non ci importano più degli insetti e i rumori del giorno si confondono, per dir così, con il più lontano cielo. Percepiamo voci, risa, sì, ma queste differenze non sono ciò a cui puntiamo, ma piuttosto all’indifferenza. Alla più banale unità in cui tutto è mischiato con tutto. Le varie funzioni, da quelle economiche a quelle politiche, le funzioni amministrative eccetera, non vengono colte più dall’attenzione. Come le varie funzioni «naturali», digerire, evacuare, a cui non va certo la coscienza ma si svolgono in un individuo nella più perfetta apatia. Ma allora come si butta del cibo in pasto ai cani così tu puoi buttare una tua azione, un gesto, a quell’individuo. Che lo si chiami bene, a dir vero, ne stravolge il senso. Ma non basta agli occhi di costoro che uno faccia qualcosa, bisogna anche che sia buona. Ciò che conta invece è che questa azione provenga dall’anzidetta indifferenza. A noi non interessa quell’uomo, il suo stesso volto sfuma in un volto universale, o piuttosto vacuo e generico. Ma da questa indifferenza per lui, proprio per lui in persona, proviene il gesto che gli butta un atto, come si butta un osso a un cane. E che questo si chiami bene oppure no anche questo infine è indifferente.

Che uno abbia bisogno di cibo non lo induce certo ad adorarlo q a rispettare in maniera particolare chi ce lo fornisce, siano gli altri o gli orti e i frutteti o gli atti con cui ce lo procuriamo. Si esalterebbero quei moti attraverso cui si evacua, o il budellino con cui ce la spassiamo? E come il suolo su cui poggiamo i piedi – non lo adoriamo certo -. Nella più perfetta indifferenza – non ci ama di sicuro – ci sostiene, consente i nostri passi. E noi lo ripaghiamo della stessa moneta. La società ci tiene in mano, ci costringe ad avere rapporti. Tiene pronte relazioni come trappole in cui sicuramente cadiamo – amicizia, matrimonio, lavoro… -. Essa si fa mantenere, insomma e ci spreme il sangue e ci butta poi, vuoto involucro, da parte. Come si disse un tempo con orrore «stato di natura», così verrà tempo che si dirà, con pari orrore, «stato di società».
Una politica che non vuole essere esaltata, la cui indifferenza viene ricambiata con l’indifferenza verso la politica, una politica simile non ha molto di «umano», se ne può convenire. Rassetta, aggiusta, mette in ordine ma non «vede» l’uomo: è ciò di cui l’accusano. La potremmo definire una politica dell’indifferenza o in cui l’indifferenza è elevata a politica. Niente fervore sociale, dunque. Anzi il principio di aridità è portato sino in fondo. Di una politica siffatta, amministratrice invisibile e inesorabile di un ordine, bisogna riconoscerne e legittimarne l’arbitrio. Che essa elegga o condanni. Davanti a una siffatta politica si è sempre individui, mai società. Può scendere su di noi la mannaia o il calore e la grazia della compassione. Una filosofia segreta sola può decifrarne gli enigmi e constatare nell’arbitrio il segno elettivo di questa politica all’altezza della teologia di cui essa ha preso il posto con dignità (si ricordino le famose parole con cui si apre Politische Theologie del grande Schmitt che si possono così riassumere: tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina politica sono concetti teologici secolarizzati. Non si dimentichi neppure Erik Petersen, Der Monotheismus als politisches Problem riunito postumo assieme ad altri saggi nei Theologische Traktate, Monaco, 1951). Questa politica invisibile si può vedere solo quando condanna o nel momento inobliabile della compassione. Poi scompare. Per lo più la politica è indifferente o per lo meno noi la vediamo così – beati infatti quelli a cui non si rivela mai – ma talora essa appare, il dio politico si mostra e si mostrano le idee del bene e della felicità a portata di mano. La sua indifferenza si incrina. Torniamo a dire che a questo punto la politica può essere solo vista dalla filosofia. Sono soli l’uno di fronte all’altro il tiranno, cioè colui che deve realizzare le sue idee e il filosofo. Ma, come scrive Kojève, «… Le conflit du philosophe placé en face du tyran n’est pas autre chose que le conflit de l’intellectuel mis en présence de l’action» (Leo Strauss, De la tyrannie, suivi de Tyrannie et sagesse, par A. Kojève, Paris, 1954, p. 264). Solo il tiranno – solo la politica – può realizzare i piani del filosofo ma l’azione è delitto. Così mentre il tiranno continua sino alla sua stessa fine, il filosofo rinuncia. La politica ritorna nell’indifferenza e nell’invisibilità e il filosofo sconfitto ritorna alla compassione.

La società si riproduce ciecamente. Essa pensa solo a esistere e basta. Che per di più debba essere giusta, ecco una pretesa in cui mostriamo di non aver capito nulla della sua natura.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *