La mitica libertà

Manlio Sgalambro in Cronache Parlamentari Siciliane, X, n. 1, gennaio 1993, p. 67

Intellettuali e politica. La ragione è stata confusa con l’autoconservazione… in epoche corrotte, in società dov’è vile vivere perché stolte sono le leggi e fugata la speranza di mutarle, l’individuo assume il rischio del suicidio…

Al concetto di autoconservazione stabilito nell’Ethica ci si richiama generalmente per salutare in Spinoza il punto più alto raggiunto dall’antropologia moderna. «Così ebbe origine – dichiara Dilthey accomunandovi Hobbes – la massima benemerenza della topologia di quest’età, la costituzione di un corpo di leggi che dominano il nesso casuale della vita psichica, Dove cioè dei singoli stati dell’anima vengono derivati dal supremo principio di conservazione». Le riserve di Dilthey, avanzate con circospezione, concernono però l’estensione da dare a questo principio.

Se il merito dell’antropologia moderna gli appare quello di essere perfettamente riuscita a collegare tutti i fenomeni psichici sotto un principio unitario, scarsa o nulla nondimeno si deve considerare, sostiene sempre Dilthey, l’effettiva incidenza di questo principio sull’insieme degli individui e totale è di conseguenza il suo rifiuto di quella che egli chiama ala cupa, anzi terribile convinzione di Hobbes, intorno all’esclusivo potere che l’istinto di conservazione esercita per mezzo degli effetti sulle azioni umane». Al suo posto infatti Dilthey porrà un edulcorato concetto di vita, mentre la questione del suicidio decadrà a semplice quisquilia privata.
L’importanza rivestita per l’illuminismo dalla questione del suicidio è da mettere in relazione col tema fondamentale dell’antropologia borghese per la quale libertà equivale a dominio di sé. È libero colui che si possiede interamente. La rinunzia volontaria alla vita prova questa illimitata padronanza, la mitica libertà. L’emancipazione moderna è cosparsa di suicidi. La letteratura suicidaria del diciottesimo secolo è piena di questo motivo. Per l’antropologia dell’illuminismo il suicidio non contraddice l’autoconservazione che essa per contro esalta, ma ne è una difesa a oltranza: col proprio sacrificio si prova l’illimitatezza dell’autoconservazione medesima. Per Kant invece sussiste una evidente contraddizione tra l’autoconservazione o, come egli preferisce dire, tra la natura che implica la propria conservazione e il suicidio che la nega. Secondo Kant infatti la massima della ragione riguardo alla libera disposizione della propria vita dev’essere tale che una natura deve in ogni caso potersi conservare secondo una legge; tale quindi che nessuno in una natura del genere possa porre fine arbitrariamente alla propria vita, Ora, allo stato naturale, la volontà non è determinata da nessuna massima in grado di fondare «una natura secondo leggi universali» (per usare le parole stesse di Kant). Una massima concernente la disponibilità della propria vita, tratta dalle proprie inclinazioni, potrebbe anzi condurre a porre fine «arbitrariamente» ad essa. «Si scorge però subito – si affretta ad aggiungere Kant – che una natura la cui legge sarebbe di distruggere la vita stessa… risulterebbe in contraddizione con se stessa e non potrebbe sussistere come natura; in conseguenza questa massima non potrebbe assolutamente occupare il posto di una legge universale della natura».
Ciò che Kant vuole dunque escludere tassativamente è che il suicidio possa divenire, richiedendolo l’occasione, un obbligo ineludibile, come fu per l’illuminismo e come potrebbe essere ancora, mentre è disposto a tollerarlo relegato fra le innocue inclinazioni. La volontà, in quanto determinazione della natura secondo leggi della ragione pratica e prima di tutto in quanto determina ciò che rende possibile una natura come ordine universale permanente, cioè l’autoconservazione regolata da leggi rigorose della ragione e non dalla volubilità delle inclinazioni, non è distante da quella volontà di vivere che già parve a Schopenhauer che si dovesse individuare sotto il nome improprissimo, datogli da Kant, di ragione. La quale autoconservazione, escluso che possa essere considerata come una legge che la natura prescriverebbe alla volontà ma al contrario prescritta dalla volontà alla natura, è, a sua volta, quella che Kant chiamò ragione pratica il cui primato perciò equivale, ultima astuzia della filosofia pratica, al primato dell’autoconservazione medesima. Da allora il suicidio non ha più rilievo filosofico. Ma l’indifferenza della filosofia odierna in materia di suicidio è un rimprovero vivente per la stessa qualità di essa. Come vi è arrivata? Lo stesso primato dato all’autoconservazione lo spiega.
Se il residuo utile del lavoro di Kant, per rendere contraddittorio il suicidio e togliergli in ogni caso Paura morale in cui era ancora immesso, è l’autoconservazione come fatto della ragione – o la ragione che comanda di vivere, come si espresse una volta chiaramente Fichte è che la ragione è stata confusa con l’autoconservazione. Ma se la ragione invece è identica alla più grande distanza che si può prendere dagli impulsi e dalle cose, l’atto che mette la distanza più grande tra l’ordine corrotto di esse e il proprio Sé, quest’atto appartiene certamente alla ragione. In certi casi anzi la ragione non può manifestarsi diversamente. In questo momento quello del suicidio diventa il problema più importante della filosofia pratica. In epoche corrotte e indegne, in società dov’è vile vivere, perché stolte sono le leggi e fugata è la speranza di mutarle, l’individuo assume il rischio del suicidio che porta sempre con sé. Darvi esito o non è poca cosa e dipende da circostanze senza efficacia morale. Assumerne il rischio è invece il segno della coscienza che s’è presa del nostro tempo ed esserne all’altezza.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *