Manlio Sgalambro in Cronache Parlamentari Siciliane, X, n. 2, febbraio 1993, p. 21
Intellettuali e politica. Dialogo immaginario, ma non troppo, fra due filosofi, alla ricerca dell’ideologia dell’esistenza.
(In una angusta stanza, dalle cui pareti strapiombano vecchi libri, A e B parlano di comunismo).
A – Io sono un comunista disperato. Traggo, cioè, l’idea di un comunismo – che non confondo con la balorda «società migliore» – non dalla storia, da cui non mi sognerei mai di aspettarmelo, ma contro la storia e, per così dire, da un’altra parte. Tu conosci la mia indignazione di essere, la mia passione per il nulla.
Vuoi il comunismo, ti dico? Allora non vuoi né un «io» né un «noi» ma una indistinzione, un muco, una poltiglia in cui ogni differenza sia solo approssimativa e vaga. Non vedi dunque come esso sia uno stato regressivo dove sbarazzarsi della propria individualità, è già godere di un nulla relativo?
B – Insomma, se non ti ho capito male, tu cerchi un nulla comune e lo opponi al nulla individuale.
Ma non è quello che i filosofi chiamano universalità del volere? Già un filosofo come Husserl notava che la comunità dei filosofi, che costituisce a parer suo il filo conduttore della storia europea nei suoi momenti più alti, «è, per così dire, comunista» (E. Husserl, Aufsätze und Vorträge, Den Haag 1989, p. 53).
A – Sì, i veri filosofi sono naturalitier comunisti. Ma questa unità di cui io parlo non è una unità nel volere, bensì un’unità nel non volere. Il rifiuto stesso di essere individui. La volontà, se così posso dire, di essere nessuno.
B – Colgo in ciò che dici l’idea di un comunismo metafisico, una condizione non dissimile da un’estasi. Ma non è certo ciò che questi barbari vogliono…
A – Non mi ricordare questo indegno argomento, intendere il comunismo come l’esaltazione dell’individuo! Barbarie, solo barbarie!
B – Ritorniamo allora al punto di partenza. Tu parlavi all’inizio di un comunismo disperato…
A – Certo. Esso infatti va all’inverso delle nostre attese naturali (non è certamente un «bisogno» come si osò sfacciatamente definirlo) e non si confonde nemmeno con gli appelli alla libertà, deplorevole abuso di un nome già oscuro. Io ritengo il comunismo il punto di arrivo del pessimismo occidentale. Esso si realizzerà nello stesso momento in cui l’essere e il suo rifiuto si installeranno nella coscienza dell’Occidente.
B – Il fine è dunque il nulla comune, tu dici, e deplori il nulla individuale…
A – Piuttosto le vie individuali per raggiungerlo… C’è però un punto intermedio in entrambe le due strade e mi rifaccio a Schopenhauer: «La sottomissione e dedizione intera e senza riserva della propria volontà a quella di un estraneo è una eccellente transizione alla rinunzia della volontà».
B – Nota però che in quanto dici si annida il punto più amaro e più umiliante di questa tua dottrina: che questo nulla comune si incarni per intanto in un individuo a mi rimettiamo la nostra volontà e il nostro essere. Tutto ciò è spaventoso.
A – Vedo invece qui l’eterna necessità della dottrina teologica del Verbo Incarnato… Spaventoso, tu dici… Ma sei qui, vivi, ed allora non fingere più. Non fummo destinati a una festa ma – comprendi veramente? – a vivere! E dobbiamo cancellare questo errore. Raggiungere questo nulla comune ami la storia non conduce ma un salto che non ti so meglio precisare o qualcosa che provenendo chissà da dove spezzerà, così almeno mi pare, il cerchio infernale. Prima però un pessimismo totale dovrà diventare lo stato stabile e «normale» della coscienza.
Io ritengo il comunismo il punto di arrivo del pessimismo occidentale. Esso si realizzerà nello stesso momento in cui l’essere e il suo rifiuto si installeranno nella coscienza dell’Occidente.