Dio esiste, ed è terribile

Sergio Quinzio in Corriere della Sera, 15 aprile 1993, p. 32
(recensione a Manlio Sgalambro, Dialogo teologico)

Libri. La teologia di M. Sgalambro

Manlio Sgalambro, l’oscuro pensatore solitario di Lentini, ha pubblicato un piccolo libro, Dialogo teologico, che ripropone la sua tesi dell’«empietismo». Così definisce infatti quella che considera la sua più grande scoperta. Essa consiste in un capovolgimento della teologia.
Sgalambro concepisce Dio esclusivamente come il Dio spinoziano: Deus sive natura. In quanto coincidente con la «massa d’essere» di tutte le cose, non ha senso dubitare della sua esistenza: egli banalmente esiste.
In quanto suprema origine e sintesi di tutte le cose Dio, sostiene Sgalambro, non dev’essere considerato degno di onore, adorazione, amore, ma anzi merita avversione, disprezzo, odio, e non soltanto una timida negazione, dal momento che – come scrive nel Trattato dell’empietà – «un ordine losco del mondo è innegabile».
Nel panorama della filosofia contemporanea, professoralmente velleitaria e ripetitiva, questa forma particolare e un po’ arcaica di pessimismo si distingue e ha un suo indubbio fascino.
Il compito del teologo – come Sgalambro si definisce – è per lui quello paradossale di annullare Dio: «Sì, io vivo unicamente per annullare Dio», per liberarsi cioè, con la sola forza del suo pensiero, dalla fatale sottomissione alla «massa d’essere». Operazione che sa già impossibile, perché «volere il nulla è volere l’impossibile annullamento di Dio».
Sprofondato in questa cupa aporia filosofico teologica, Sgalambro, o piuttosto la mente di Sgalambro, vaga attraverso una serie superba e ossessiva di acuti argomenti, il cui rigore si mescola a un groviglio di assurdi e di paradossi. Pensare, per Sgalambro, è lo sfogo del suo rancore, della sua rabbia di essere. Coincidendo così con la volontà, il suo pensiero non conosce dubbi ma solo immediate esperienze evidenze, «dogmi». Il suo solipsismo disdegna ogni interlocutore, ma in questo suo ultimo libretto sceglie la forma del dialogo, che è, però, uno pseudo-dialogo all’interno di se stesso.
Sgalambro pensa, dunque, per orrore delle cose che sono, ma insieme, e lo dice, per il suo «esagerato timore della morte». Solo nell’esercizio febbrile del pensiero prova gioia, sperimenta un «frammento di bellezza» nelle «pur meravigliose nozioni che il desolante significato non turba» (Trattato dell’empietà), ma è una gioia momentanea perché infine anche il pensiero rivela la sua negatività: «Senza la segreta aspirazione a non pensare vedo perduta ogni dignità e raggiunta la più completa abiezione». La sua è, in definitiva, ancora un’evasione estetica dalla realtà («Devo confessare una certa tendenza al lato estetico delle idee») e questo è un segno inconfondibile di modernità. Ricade perciò nella malinconia di sempre. Nel Trattato dell’empietà aveva parlato della frivola disperazione di un «annoiato dandy».
Affrontando il discorso del pensatore siciliano ci si trova di fronte, più che a una teologia, o a una filosofia, a una, del resto dichiarata, psicologia: «Resto fermo all’idea di descrivere le caratteristiche delle mia propria mente».
E allora, al di sotto dei gelidi argomenti, si deve dire che trapela in lui una pietà per le cose che forse tenta di respingere violentemente proprio perché ne patisce l’eccesso. Scrive nelle ultime righe: «Dall’odio di tutto l’universo scorrono pena e struggimento per i nostri simili».

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