Elogio dell’indifferenza

Manlio Sgalambro in Cronache Parlamentari Siciliane, X, n. 6, giugno 1993, pp. 41-42

Intellettuali e politica. La società la «fanno» i processi digestivi, si metabolizzano i cibi, si utilizza l’ossigeno. È come vedere gli dei con la faccia di cavallo

Mi chiedo se come individuo io non possa sciogliermi da ogni legame sociale o almeno considerarlo con indifferenza. L’indifferenza in materia sociale mi sembra il minore dei mali in un’epoca turbata. Ho infatti una certa paura dello stato di società proprio come l’individuo hobbesiano l’aveva dello stato di natura. A me sembra che lo stato di società sia proprio quello in cui non solo ognuno può uccidere ognuno ma in cui gli stessi legami che il contratto sociale mi obbliga ad avere con gli altri sono così vincolanti che la società non mi pare così differente da una prigione sia pure comoda e all’apparenza accogliente.

Mentre mi si concede, più o meno facilmente, di sciogliermi dai miei legami privati, almeno da taluni, non mi è assolutamente per messo di farlo da quelli pubblici. Io devo, oltretutto, soggiacere alle scelte di una cosiddetta maggioranza – anche se so perfettamente come essa si sia andata formando -. Se diamo allo stato di società il valore pragmatico di un principio (valido almeno quanto quello della paura dello stato di natura), si capirà come io oscilli in conseguenza tra uno stato simile a quello dove regnava l’anarchia del diritto di resistenza feudale, cetuale o ecclesiastico e la contrapposizione al pluralismo attuale, come avvenne con il pluralismo medievale, dell’unità di un potere univoco, onniprotettivo e sufficientemente prevedibile.
Ciò che mi proibisce di ritirarmi in me stesso e trascorrervi la mia vita non è certamente la mia coscienza, l’appello della quale solo io debbo ascoltare, ma la pubblica opinione. «Ma l’opinione pubblica può agire su di me – scrive un vecchio e distinto autore di morale – e su chiunque solo in quanto io ne sono a conoscenza, in quanto è data nella mia coscienza, in quanto io stesso dunque formulo il suo giudizio, certo non come io ma come altrui» (Schubert-Soldern, Grundlagen zu einer Ethik, Leipzig 1887). Fermo restando però che solo i giudizi che formulo in quanto «io» sono giudizi morali, legati come tali alla «colpa» del fare, mentre gli altri sono solo giudizi di fatto senza alcun significato etico. La richiesta di giustizia, ad esempio, che in talune occasioni sale, come si dice, veemente dall’opinione pubblica, non ha niente a che vedere con l’assunzione di una responsabilità morale. Ciascuno di quelli che la formano agisce infatti come un «altro» e non come un «io». Insomma l’opinione pubblica è formata da altri e mai quindi da «io» cioè da singoli che agiscono sulla base della propria coscienza e quindi della propria responsabilità. Resi dunque sicuri che al massimo ci può biasimare la pubblica opinione i cui giudizi, per le ragioni che sopra abbiamo riportate, non sono veri giudizi e quindi non riguardano mai l’«io», noi possiamo insistere nell’affermare e nel sostenere l’indifferenza in materia di società davanti alla quale è come se cadesse lo stesso contratto sociale. Mettiamo che un «io», cioè un individuo ad alta coscienza, asserisca di sentirsi sciolto da qualsiasi obbligo sociale e vincolato solo dal proprio capriccio. Qui si pone un altro problema non meno pieno di seduzione e non meno in definitiva ingannatore. Io non voglio discutere il concetto di libertà, dice il nostro interlocutore, ma ritengo che un filosofo tuttavia ha diritto a non avere l’opinione del suo sindaco. Ora vedo con somma meraviglia, continua il nostro, come l’opinione di un sindaco e quella di un filosofo su questa faccenda invece coincidono. Io sono scevro di pregiudizi ma non tollero un minuto di più questa convivenza. Mi si permetta di mettere schiettamente allora al posto di libertà, «capriccio». Se posso formulare una proposizione di ordine generale dirò dunque che io desidero una società in cui possa valere non soltanto la mia libertà ma anche il mio capriccio. Naturalmente il problema se questa società sia migliore o più giusta non si pone nemmeno. Ora, siamo tutti d’accordo che la società non ha minimamente il compito di soddisfare i capricci di un individuo o della stessa totalità degli individui che la compongono.
Ma perché essa dovrebbe avere l’obbligo di soddisfarne i bisogni? La differenza che passa tra il bisogno di soddisfare la fame e il bisogno di avere un certo quadro di Van Gogh, una preziosa incisione dei Tre pezzi per pianoforte op. 11 di Schoenberg, non è la stessa che passa tra la libertà e il capriccio? Come non si può distinguere tra i bisogni, non si può distinguere tra questi ultimi. In realtà la società è ciò che è. Ma la società, si dice, è fatta dagli uomini. È l’enfasi che si mette su questo punto che distingue una cosa dall’altra. La società la «fanno» gli uomini, ma come «fanno» i loro processi digestivi, metabolizzano i cibi utilizzano l’ossigeno, chimizzano l’azoto, ecc. Il resto è antropoformismo sociale. È come vedere gli dei con la faccia di cavallo vedere nella società la propria.
L’individuo che ha duramente conquistato un’alta coscienza ritorna dunque a se stesso. Egli agirà, sì, ma come se non agisse: darà il suo obolo ma la sua mano allontanerà il beneficiario. Avviene, così quasi l’annullamento di ogni legame sociale, quasi l’annullamento della società stessa. Al suo posto si installa il divino capriccio che elegge l’uno e scaccia l’altro.

La richiesta di giustizia, ad esempio, che in talune occasioni sale, come si dice, veemente dall’opinione pubblica, non ha niente a che vedere con l’assunzione di una responsabilità morale. Ciascuno di quelli che la formano agisce infatti come un altro e non come un io.

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