Misteriose evidenze

Manlio Sgalambro in Cronache Parlamentari Siciliane, X, n. 7, luglio 1993, pp. 26-27

Intellettuali e politica. Le idee politiche seguono una gerarchia: quelle che stanno all’apice appartengono all’essere dell’individuo, le altre al sentimento o alla ragione. Ma solo le prime si traducono in evidenze…

In politica «dobbiamo considerare un’ingiuria il fatto che qualcuno voglia infliggerci un’opinione facendo leva sui modi d’azione che mirano alla sensibilità e cerchi di convincerci seguendo la strada in cui l’intensità, la sorpresa, gli istinti o i ricordi vanno più veloci di ogni analisi e dispensano dalle prove e precisazioni riflessive» (Paul Valéry, Les principes d’anarchie pure et appliquée, trad. it. Guerini e Associati, Milano, 1990, p. 88).

Ma io direi che anche l’infliggerci una prova dobbiamo considerare ingiurioso e non assolveremo i ragionatori politici dal volere agire sulla nostra razionalità con mezzi altrettanto subdoli. In realtà qui valgono le nostre evidenze e solo quelle. Chi crede in Dio sottrae a ogni prova questa fede né si lascia convincere dalle prove «razionali» contrarie che considera un’offesa né da quelle pro e così l’ateo.
Egualmente chi crede all’uguaglianza degli uomini o alla loro ineguaglianza: egli è vincolato da queste evidenze (il modo come esse si sono formate appartiene al mistero delle evidenze che l’individuo non è tenuto a sapere né a indagare) e non sarà un banale «ragionamento» che potrà smuoverlo. Le idee politiche seguono un ordine di importanza, una gerarchia, per cui si può dire, pressappoco, che quelle che stanno all’apice appartengono all’essere dell’individuo, le altre al sentimento e alla ragione.
Ma sono le prime che si traducono in altrettante evidenze. C’è dunque un’evidenza in politica? Una sorta di atto dello spirito che conferisce chiarezza intellettuale e supremazia a un modo di essere nella polis? La risposta non è che l’uomo è un animale politico. Che sarebbe una sorta di risposta balcanica a ciò che invece richiede prima di tutto di avere una idea dell’uomo. In ogni caso si deve tentare una via opposta per venirne a capo. Quali sono gli obblighi sociali, bisogna chiedersi, che derivano all’individuo non dall’idea presupposta di società ma, per dire cosi, da se stesso? Possono derivarsene, la guerra, la fiscalità, l’idea (intollerabile) di giustizia, la formalità della volontà generale, gli atti della polizia? Oppure la società incombe qui sull’individuo con tutta la sua estraneità, come una «natura»? «Une forme… par laquelle chacun s’unissant à tout n’obéisse qu’à lui-même et reste aussi libre qu’auparavant. Tel est le problème fondamental dont le contrat social donne la solution». Un eterno topos di Rousseau.
Ma se non ne vogliamo sapere? Abbiamo la risposta pure per questo. Il consenso e l’adesione anche da quelli che dissentono è data dal fatto che essi continuano a risiedere in quello Stato. «Abitare il territorio significa sottomettersi alla sovranità», dice Rousseau. (Vogliamo rimandare per questo punto a Giuseppe Rensi, La Filosofia dell’autorità, Palermo 1920. Se ne veda la recente edizione De Martinis & C., Catania 1993).
Così siamo presi da tutti i lati. Siamo nelle mani di una società a cui non possiamo sfuggire che per cadere in un’altra. Inoltre più la società ci stringe più avvertiamo una diminuzione dell’intelligenza. Più aumenta la società più aumenta la stupidità.
Aumenta infatti la credulità delle masse (la fede nel futuro, la società migliore, ecc.) e la stessa individualità ne risente profondamente. Se si guarda però in se stessi l’orrore della società diventa sì insopportabile ma aumenta il diletto di sé e l’affermazione della propria esclusività. Ritorniamo adesso alla tesi che l’uomo non possa vivere che in società con un altro spirito. E nei limiti in cui se ne allontana che lo prendiamo in considerazione. Ricordiamoci della lunga lotta sostenuta contro la natura. Domare gli istinti, regolare le passioni, spegnere gli impulsi brutali a uccidere: questa fu una parte della lotta contro la natura nella quale, a quel che si dice, l’uomo conquistò a poco a poco una decente idea di se stesso. Sembra che adesso tutto questo bisogna farlo nei confronti della società. E che certi istinti sociali siano non meno nocivi degli istinti naturali domati. Noi proveniamo dalla società ma è man mano che ce ne allontaniamo che prende corpo la nostra distinzione e una non ingenua dignità.

C’è una sorta di atto dello spirito che conferisce chiarezza intellettuale e supremazia a un modo di essere nella polis? Più aumenta la socialità più aumenta la stupidità… Non è detto che certi istinti sociali siano meno nocivi degli istinti naturali domati.

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