Il quinto stato

Manlio Sgalambro in Cronache Parlamentari Siciliane, X, n. 8, agosto 1993, p. 29

Intellettuali e politica. Il maggio francese del ’68 aveva fatto di Marx un Hegel impazzito. Il giovane hegelismo di un tempo faceva la rivoluzione con i mezzi del 1848. Si credette che quella fosse la presa della Bastiglia, invece era soltanto la presa della parola

Il ceto intellettuale, sorto sul finite dello scorso secolo dalle ceneri dei «philosophes» sembra in completo disfacimento. Questa denominazione, come si sa, accomuna scienziati, uomini politici scrittori, artisti, filosofi, avvocati, architetti, ingegneri, quelli insomma in cui elemento unificante «era il ruolo svolto dall’intelletto in tutte queste occupazioni» (Zygmunt Bauman, La decadenza degli intellettuali, Torino 1992, p. 32). Esso doveva, in ogni caso, incarnare i destini generali. Fare scaturire da ogni fatto particolare questa miscela esplosiva. Sembrava che mai, come nel maggio francese ‘68, la fusione tre questi diversi elementi fosse così perfetta. In realtà ben presto si vide di che si trattava: era una vera resurrezione dei morti. Si era fatto di Mero un Hegel impazzito: il vecchio giovane hegelismo faceva la rivoluzione coi mezzi del 1848. Cioè, come allora, per mezzo dell’«uomo».
La più prestigiosa ideologia del nostro tempo, così la si riteneva, vera macchina per fare le rivoluzioni, aveva partorito non la presa della Bastiglia ma soltanto, come poteva affermare soavemente Roland Barthes, la presa della parola. Una generazione prendeva coscienza di sé: era questo il senso di tutto quel rumore? In verità vi era ben altro: forse si annunciava la prima rivoluzione degli intellettuali.
Dai timidi esordi dell’affare Dreyfus a quest’altro «affaire», gli intellettuali, a quel che sembrava, si confermavano come classe: il «quinto stato» – come era stato chiamato – riceveva la sua consacrazione nel migliore dei modi: una rivoluzione e per di più fallita.
Si avviava comunque, nello stesso tempo, un processo di ridefinizione dello status l’intellettuale tradizionale ben diverso da quello che nella seconda metà degli anni Quaranta aveva portato Sartre a distinguere l’intellettuale impegnato da quello borghese e certo più radicale. Per un istante in Francia – durò poco, alcuni mesi forse – non si scrissero più romanzi, non si elaborarono filosofie, non si dipinsero quadri o almeno così sembrò. Era avvenuto un corto circuito. L’intellettuale si pentiva di ciò che era. Egli si appropria della ricchezza «sociale»: sentimenti, immagini, pensieri… Tramuta in una celebrazione solitaria, in una proprietà, ciò che è di tutti per restituirlo solo alla fine come libro, opera, quadro… Alla fine, cioè quando ormai è troppo tardi. L’atto con cui l’intellettuale si distacca dagli «altri», quella originalità che egli pretende, anzi deve pretende per la sua opera, lo rende colpevole.
Tutti questi anni l’intellettuale li ha vissuti in questa situazione. Da qui il progressivo dell’intellighentia europea. Da un lato l’intellettuale rilutta ad accettare l’ingiustizia dello spinto, l’unilateralità della grande creazione, la colpevolezza stessa dell’intelligenza. Dall’altro si arrende alla stupidità sociale. In realtà il concetto di intellettuale era più che altro un concetto propagandistico. Più che altro si faceva propaganda per un mondo, per una società. Si batteva il tamburo anche se i suoni erano strazianti perché l’intellettuale batteva sulla sua pelle. L’intellettuale non voleva più scrivere una poesia, costruire una filosofia, esprimersi con dei colori, dei suoni, ma «creare» un mondo. Il che era stupido. Ogni l’intellettuale vuole riprendersi la sua specificità e rientrare nei suoi panni. Egli depone anzitutto questo nome a cui non sa più dare alcun contenuto. Ritorna ad essere artista, scrittore, filosofo o scienziato consapevole che è proprio attraverso questo, scrivendo, o dipingendo, maneggiando i concetti o facendo i suoi calcoli, che egli è se stesso. Nello stesso tempo la «povertà, dà su cui gli intellettuali-miglioratori puntavano per le loro manovre, perde la sua aura. Subentra, com’è stato detto, «il disincanto della paresse». «Essere poveri sembra ancora una volta non romantico. Non contiene alcuna missione, non è gravido di alcuna gloria futura. Psicologicamente, se non logicamente o storicamente, la povertà appare residuale, marginale, estranea» (Zygmunt Bauman, op. cit., p. 203). Se l’altra faccia del «povero» è il «consumatore» – entrambe facce sgradevoli – l’intellettuale che si attarda mura in questo status è ormai solo un propagandista. Un propagandista di idee. Solo un piazzista di «idee sociali» a buon mercato.
Le discussioni da bacchettoni su «politica e cultura» fanno ormai solo arcadia. Solo intellettuali attardati, vecchie canaglie che non sanno più nulla di se stessi, della loro «vera patria», o non vogliono saperlo, giuocano ancora al miglioramento del mondo.

Una generazione prese coscienza di sé: era questo il senso? In verità vi era ben altro: forse si annunciava la prima rivoluzione degli intellettuali. Dai timidi esordi dell’affare Dreyfus, gli intellettuali si confermavano come classe: il quinto stato.

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