Manlio Sgalambro in Cronache Parlamentari Siciliane, X, n. 12, dicembre 1993, p. 24
Intellettuali e politica. Che cos’è una nazione? Anzitutto ciò di cui si sono dimenticate le origini. Non appena ci si ricorda di ciò che è fatta – economia, storia, etnie, livelli sociali – scoppia con una bolla d’aria. O come una bomba. Clamoroso abbaglio o coscienza di un’epoca?
«Cos’è una nazione? Anzitutto ciò di cui si sono dimenticate le origini. Non appena ci si ricorda di ciò di cui essere fatta – le diverse storie, l’etnia, l’economia diverse su diversi livelli – essa scoppia con una bolla d’aria o come una bomba. Anche qui bisogna dimenticare, dunque, da dove si proviene. «L’oblio, e dirò persino l’errore storico – scrive Renan – costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione…» (Ernest Renan, Che cos’è una nazione?, Roma 1993, p. 7).
Ed è anche, ovviamente, un fattore indispensabile perché ne persista un caldo sentimento. Bisogna vivere nel proprio paese come se non vi si vivesse. Solo allora, esso si confonde con il cielo e con la terra, con l’aria e gli altri elementi, si confonde col mondo. Vediamone adesso un altro lato. «Nella mia vita non ho mai “amato” nessun popolo o collettività – scrive Hannah Arendt – né il popolo tedesco, né quello francese, né quello americano, né la classe operaia, né nulla del genere. Io amo “solo” i miei amici e la sola specie di amore che conosco e in cui credo è l’amore per le persone» (Ebraismo e modernità, Milano 1986, p. 222). Anche questa impossibilità di amare la «nazione» descrive bene la nostra situazione davanti ad essa. Da un lato affinché una nazione esista bisogna dimenticare che esiste. Dall’altro essa non si può più amare. L’impietoso sguardo nominalistico la elimina dalla sfera dei nostri affetti. Il concetto di nazione subisce dunque lo stesso tracollo subito dal concetto di umanità. Il concetto di una umanità discontinua subentra. Mentre l’umanità si dissolve e si va trasformando in bande di individui vaganti accomunati da uno stesso presente, cosi questa divisione in bande si prospetta per la stessa «nazione». Noi possiamo chiamare «umanità» con convinzione solo un certo stato presente di essa. Ma questo, come dissolve l’umanità così dissolve la nazione. Essa non viene vista come «durata» ma in simultaneità. Ma senza durata l’idea di nazione tende a perdere la sua unità temporale, cioè il modo come era vissuta, come unità di passato presente e futuro e si trasforma in un minaccioso aggregato (La minaccia è maggiore perché deriva da una unità preesistente. Più si è vissuti insieme, più è pericoloso separarsi). Questa unità temporale, che forma l’ossatura di una nazione, si disgrega. È essa che prima di tutto vien meno. Non ci si separa se prima la stessa unità di tempo non si è frammentata, dispersa. E dalle macerie resta solo l’odioso presente. L’unità temporale, dicevamo, si disgrega. Il passato affluisce, ma come privo di ogni altra dimensione. Senza prospettiva, senza quel «futuro» che portava in sé o sembrava portare (e che fece comunque di quell’aggregato una nazione). Ora affiora come inimicizia, come contrasto o guerra. Ciò che fu una volta. Ora comincia la reculade, la sauvagerie: la nazione s’inabissa. Quando crollò la polis, scrive un filosofo politico dello scorso secolo, «i filosofi respirarono e si sentirono togliere un gran peso dal petto». L’ideale del filosofo non è più Socrate, ma Diogene: senza città, senza casa, senza patria: un nomade. Agli Ateniesi che vantavano la nascita dal suolo patrio un altro filosofo rispose che essi condividevano questa gloria con le lumache e con le cavallette. Siamo nella stessa situazione. I contorni morfologici di quest’epoca ci consegnano mani e piedi a un ellenismo di ritorno. L’amore per il suolo in cui si nasce è un sentimento in più. Ogni radice è di troppo. L’idea di patria, l’idea di nazione, sono idee patetiche. Il suolo dell’origine è maledetto come l’ora della nostra nascita. O indifferente come quello delle lumache.
L’ideale del filosofo non è più Socrate, ma Diogene: senza città, senza casa, senza patria. Un nomade… Quando crollò la polis i filosofi respirarono e si sentirono togliere un gran peso dal petto.