Dialogo teologico

Manlio Sgalambro, Adelphi, 1993

Sgalambro definisce questo scritto «una piccola macchina che smonta il concetto di Dio sino al suo scheletro». Diviso in due parti – la prima di soliloquio, inteso come «via regia della filosofia», e qui dedicato a un insolente e vigoroso autoritratto speculativo, che poi si diparte in «falso dialogo» -, questo breve testo sembra uscire dalle pieghe più nascoste della teologia medievale, là dove l’ossessiva attenzione a quella «massa d’essere» che è chiamata Dio aveva fatto crescere le piante avvelenate dell’avversione e della diffidenza: in breve, aveva allevato l’empietà all’ombra della scienza di Dio. Sgalambro rovescia brutalmente alla luce questo remoto e tenebroso passato con un gesto quanto mai moderno, possibile soltanto a partire da Schopenhauer – e che colpisce ben più a fondo le molli filosofie secolari oggi diffuse per il mondo che non l’aspra e antica sapienza teologica. «Ma uomo giusto è chi sa questo: che egli deve ‘annullare’ Dio quotidianamente affinché la misura dell’eterna giustizia quotidianamente si compia».

Definisco il pensare come l’attenzione per tutto ciò che non è se stessi o l’attenzione per se stessi ma come se non si fosse. Per gli equivoci che causa, sono propenso a usare invece di ‘pensare’, ‘essere attento’ e al posto di ‘pensiero’, ‘attenzione’. Uno dei benefici sarebbe quello di lasciare ‘pensiero’ all’uso corrente. L’idea di sforzo connessavi sarebbe ben spiegata dal concetto di attenzione che è implicito in essa. Definisco, poi, idea lo scarto tra noi e le cose. Allibisco quando sento dire che le idee e le cose sono identiche. È il potere di questo scarto che definisce la stessa capacità di pensare.

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