Postfazione del curatore

Manlio Sgalambro in Julien Benda, Saggio di un discorso coerente sui rapporti tra Dio e il mondo, 1993, pp. 185-190

Vi sono opere filosofiche che non rispecchiano i bisogni dell’epoca e neanche quelli della specie. Vengono come da un’altra parte e non si annunciano nemmeno. Ad un tratto qualcuno, non si sa come, entra in rapporto con esse anche se tutto fa pensare che non vi possa essere nessun rapporto. Quale rela­zione infatti si può immaginare tra questo Essai e un comune individuo d’oggi? Quale legame fra un comu­ne filosofo d’oggi e quest’opera? Sembra tutto sconta­to: essa è inutile alla specie, all’individuo, alla filoso­fia. Certo l’Essai è un’opera immobile. Dalla prima all’ultima parola tutto è simultaneo. Chi vi entra, deve tentare di essere eterno. In ogni caso un atto che si disincarni è richiesto. La scena è preparata perché quello che avviene duri solo un’istante. Insomma è richiesto un atto, non un’interpretazione. Chi vuole capire capisca, ma non si tratta di questo. Si sa che quanto oggi chiamiamo “lettura” è solo un debole rapporto. Infine di che cosa si tratta? Di un libro. Ciò attenua la tensione (se mai all’inizio vi è stata). Tutto diventa una tranquilla faccenda in cui niente di deci­sivo può accadere a una mente. Tuttavia teniamolo presente: davanti ad un’opera filosofica le uniche regole che valgono sono quelle dell’ascesi concettuale. Cade la sua banale realtà di libro e il nucleo di idee, come se si sorreggesse su sé stesso, appare e ci folgora.
L’idea di Dio e il suo rapporto con l’idea di mondo è un tema speculativo che la filosofia occidentale ha da tempo buttato ai cani. Del resto è scomparsa la stessa idea di realtà. Per il filosofo comune essa è la sua immagine. La gnoseologia, scienza di fantasmi, prese a suo tempo il posto della teologia, scienza della più “grande” delle realtà. Di ciò si menò vanto come di una conquista della riflessione filosofica. Ma non appena il problema della realtà riacquista il suo diritto alla riflessione, l’eterno problema si riaffaccia. L’idea che Benda professa è quella di un infinitismo integrale. Un infinito in cui tutte le determinazioni vengono risolte, ogni distinzione ingoiata. Quanto a noi riteniamo che non si possa mantenere questa idea di infinito ed evochiamo l’idea di “smisurato” come più appropriata. È evidente che così tutto cam­bia. L’idea di Dio che persegue Benda non è quella del “nulla” con cui i mistici si beffano da sé stessi. Ma quella di una possibilità permanente di annullamen­to. Questa idea è insidiosa. Essa elogia ogni attentato all’individualità come un privilegio. Ne fa il divino stesso. Benda condivide lo sdegno per l’empietà come uno qualsiasi. «Se l’empietà consiste, per un essere, nella sua separazione da Dio, il mondo feno­menale, per il solo fatto che è fenomenale è nel­l’empietà». In altre parole lo stato di empietà è lo stato di chi vuole sé stesso davanti ad un infinito che non lo vuole. Per Benda l’individuo è dunque natu­raliter empio. Ma tutto ciò è praticamente vano se l’oggetto del suo pensiero, come egli dice, «n’est pas Dieu (substantif)», ma «c’est le divin (adjectif appliqué au monde)» (p.37). Noi che prendiamo le mosse dallo smisurato, assentiamo a che Dio sia inconcepibile al di fuori del mondo. Ma riteniamo che il nomen Dei sia il terminus technicus per tutto questo pasticcio e “divino” solo una exornatio. Si devono in ogni caso tenere stretti alcuni punti del suo «discours». In que­sto sistema, scrive Benda, Dio non è, come certuni credono, la vacuità dell’essere, ma la totalità dell’essere: tutti gli stati del mondo, passati, presenti, futuri, sono in Dio; è unicamente la loro distinzione che non vi è.
Né io né tu dunque o, secondo le parole del De divisionæ naturæ di Scoto Eriugena: «erit enim Deus omnia in omnibus quando nihil erit nisi solus Deus». Noi che pratichiamo la separazione da Dio e dunque l’empietà stessa vediamo in essa quel tentativo di essere che solo un Dio annullato potrebbe far riusci­re. Ciò dà un’ulteriore ragione a Benda: il mondo fenomenico non è concepibile in rapporto a Dio che come separazione da Dio; o anche: il mondo fenome­nico non è concepibile in rapporto a Dio che in stato di avversione a Dio (pp. 43-45). Si sviluppa qui una teologia che Benda nemmeno sospetta. L’infinitismo integrale, abbiamo detto, ci induce ad asserire che Dio non è il Niente, ma l’Annientante. Ciò mette in dubbio tutta una tradizione di puri adoratori che va da Spinoza a Benda stesso. Altri lavoreranno invece sui dati dell’empietà. Non è ovviamente la via di Benda. Ma per intanto bisogna fermarsi davanti a questo Essai. Praticare la santa passività dell’intelligenza. Lasciare scorrere nella propria mente i suoi mirabili concetti. Qualcosa accadrà.

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