Manlio Sgalambro in Cronache Parlamentari Siciliane, XI, n. 2, febbraio 1994, p. 22
Intellettuali e politica. La metafisica può guidare la politica? Ubbidirvi o seguirla? Il filosofo propone il quesito, definendolo una fantasia. Ma dietro c’è il concetto della libertà e del bene comune
Il titolo di un vecchio libro di Joachi Ritter, Metaphysik und Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel (Frankfurt am Main 1969; ve ne è una traduzione italiana, Casal Monferrato 1983), mi fa immaginare (abbandonando il Ritter al suo destino) che la subordinazione della politica la metafisica possa realizzarsi nuovamente. Io torno, cioè, alla possibilità, o se si vuole la fantasia, che la politica subordini interamente alla metafisica perché tragga da queste le severità.
Prima di ogni altra che la verità è al di là del bene e del giusto e certamente al di là dell’uomo e di ogni legge. Inutile aggiungerlo infatti ed inutile aggiungere che da essa l’uomo è trattato come un qualsiasi spregevole ente.
Devo sottolineare che il riconoscimento di questa verità, la pretesa, apparentemente legittima, che essa debba esibire i suoi titoli, è superflua ed esilarante. Perché ogni individuo ne ha la prova nello stesso momento in cui muore. Insomma, per la metafisica a cui pensiamo, la verità è la morte. Essa è index sui et falsi. Se la politica inoltre si dovesse subordinare alla metafisica, essa non potrebbe farsi guidare dal «meglio» e dagli squilli di tromba. Dovrebbe accettare anzitutto che l’uomo è uno spregevole ente. E che per quanto riguarda la libertà (il «meglio», cioè) – un’ossessione costante della politica -, metafisicamente parlando l’uomo ne ha tanta quanta potrebbe averne un asino, come il giovane Spinoza riteneva che l’uomo sarebbe stato se non fosse stato libero (homo non pro re cogitante sed pro asino turpissima habendus est). Accettare la verità (ma è maledettamente improprio esprimersi a questo modo perché la verità, come la morte, qualsiasi cosa ne dicano per quest’ultima gli storici, non si «accetta» ma squallidamente si subisce) dobbiamo riconoscere che è umiliante. Significa, torno a dire, non innalzarsi al «meglio», ma accettare, ad esempio, l’ingiustizia, accettare di nascere schiavo nell’epoca di Pericle o salariato nella nostra. Accettare di non essere «liberi» e l’umiliazione di essere degli «enti» sociali (cosa che significa per un individuo dover essere migliaia di «individui» solo per essere uno). Questo dunque, o su per giù, dice questa metafisica che io immagino. Essa non ammette il «meglio» e gli squilli di tromba a cui ordinariamente la politica è cosi sensibile. E se Spinoza, ad esempio, in nome della metafisica ha potuto dire che la ragione è la parte migliore di noi stessi (melior pars nostri), semplicemente egli sbaglia perché la «ragione» (con questo nome egli indica in effetti la «coscienza») raddoppiando la nostra condizione con la consapevolezza che ne acquisiamo mediante essa, la rende «peggiore», cioè la parte «peggiore» di noi.
Se la politica ubbidisse dunque alla metafisica dovrebbe evitare con tutte le sue forze di svegliarla in quelli a cui si dirigono le sue cure. In altri termini, se la politica ubbidisse alla metafisica dovrebbe evitare di svegliare in essi non gli istinti, sia pure i più brutali, ma proprio la ragione e la coscienza e tenerle per sé. Ma se seguisse fedelmente la metafisica e cioè l’ordine ontologico, la politica non dovrebbe perseguire nemmeno la giustizia e il sapere (perché mai essi potranno rompere la durezza delle cose), inculcandone il senso negli esseri che essa predilige e quindi raddoppiando il male con il male. Dovrebbe estirparli alle radici e solo alcuni infelici dovrebbero essere condannati a sapere.
Così mi è sembrato di rappresentare un rapporto in cui una metafisica immaginaria guidasse la politica. Ma è solo quasi una fantasia.
Se la politica si dovesse subordinare alla metafisica, essa non potrebbe farsi guidare «al meglio» e dagli squilli di tromba. Dovrebbe accettare anzitutto che l’uomo è uno spregevole ente…