L’uomo, la politica e la malattia

Manlio Sgalambro in Cronache Parlamentari Siciliane, XI, n. 3, marzo 1994, p. 24

Intellettuali e politica. Da quando la salute diventò una questione politica tutti furono malati. E fu sancito che nemmeno la guarigione, tutto sommato, riguardava il malato perché concerneva le leggi e la società

Da quando la salute diventata una questione sociale l’individuo non è più la responsabilità, per sesso diritti sulla salute di cui non dispone più da solo. È la società stabilire la malattia alla guarigione. Predispone i limiti e le modalità. Il concetto di salute diventa una malattia da cui non si guarisce. Che ne è affetto e sempre malato. E questo concetto Che deve essere estirpato. Le grandi malattie non si curano. In esse si manifesta ben più di quello che appare. Le culture «superstiziose» si fermavano davanti ad esse.

Il pecus laicus passa avanti disinvolto. Anche se la comune opinione sostiene il contrario, io sono di un altro parere: bisogna lasciare che le grandi malattie eseguano la condanna che fu loro affidata senza che la società si intrometta negli affari del destino. Come troviamo scritto nel Corpus hippocraticum, «La medicina consiste nel togliere le sofferenze all’ammalato, diminuire la violenza delle malattie e rifiutarsi di curare coloro che sono sopraffatti dalla malattia». Grandiosi programmi di salute pubblica proteggono invece la specie in modo che l’umanità non scompaia.
La bioetica fa di questo stato di cose la condizione di un programma di doveri che assumono l’esistenza eterna dell’umanità come la base della morale. Mostruosi ospedali ti risucchiano e ti rimettono a posto, buono per un’altra volta. Mentre attraverso quella fessura aperta dalla malattia probabilmente nella tua vita si era introdotto il fato.
Questi luoghi trasudano di volontà di vivere e gli avidi gesti degli addetti ribadiscono le catene a cui sei avvinto. Quella vita che non è che tu vuoi (come ti si vuol far credere) ma di cui invece sei voluto. Al principio spinoziano (caposaldo dell’antropologia moderna) «conatus sese conservandi primum et unicum virtutis est findamentum», è stato aggiunto, con la benedizione degli aventi causa, «et salutis». In realtà il concetto di salute è un insano concetto politico. Richiama queste parole di un vecchio filosofo tedesco e la loro malcelata ironia: «Nella politica l’uomo è un mezzo, nel miglior caso un mezzo volto al proprio bene» (Spranger, Lebensformen, 2ª ed., p. 192).
Il primo che derivò dalla società il concetto di saluto e l’obbligo connesso di guarire fu Socrate. Socrate fu il primo «medico» politico.
La salute appartiene alla società non a te, dice Socrate, guarirti è il compito della polis; prima di tutto delle leggi e solo dopo tuo. Naturalmente da quando la salute diventò una questione politica tutti furono malati. Con la salute (con il suo concetto politico) si introdusse nel mondo la malattia. E fu sancito che nemmeno la guarigione, tutto sommato, riguardava il malato ma concerneva le leggi e la società.
La malattia non fu dunque più qualcosa in cui si esprimeva, mettiamo, il proprio rapporto col destino ma il più superficiale dei rapporti, quello con la società.
L’ambizione della politica fu da allora quella di potere affermare l’origine sociale di ogni malattia ma soprattutto la natura sociale della guarigione.
Corri dunque nel tuo lettuccio, già preparato per te, raccomanda la politica. Ma io do retta a un altro: «Non sai che malattia e morte devono sorprenderci mentre facciamo qualcosa?» (Epitteto, Diatribe, III, 5).

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