I vascelli di Wagner

Antonio Gnoli in La Repubblica, 15 aprile 1994, p. 38
(intervista e recensione a Manlio Sgalambro, Contro la musica)

Richard Wagner morì il 13 febbraio del 1883 a Venezia, una città che aveva amato e nella quale soggiornò più volte. E i wagneriani provenienti da tutto il mondo confluiscono a Venezia per ricordarlo con un congresso internazionale che apre oggi presso la Fondazione Cini. Altre manifestazioni sono previste: una mostra di fotografie, documenti, materiali di archivio, locandine che riguardano la genesi del Tristano e Isotta, è allestita nell’appartamento dove abitò e morì il compositore. Dal 20 aprile al 28 maggio la stessa mostra si potrà vedere nello spazio Olivetti allestito in piazza San Marco.
È difficile pensare a Wagner fuori dal rapporto con la grande filosofia e la grande letteratura, soprattutto tedesche. «Ma è un rapporto che non si consuma nella sudditanza, nell’influsso che filosofia e letteratura avrebbero sulla sua musica, bensì in un confronto estenuante grazie al quale Wagner si libera da ogni condizionamento. È come se bruciasse i vascelli su cui naviga», dice Manlio Sgalambro che da poco ha pubblicato un pamphlet in cui Wagner rappresenta la chiusura con un vecchio modo di interpretare la musica, caricandola di nuovi compiti (Contro la musica, edito da De Martinis).

In che senso Wagner chiude con un certo modo di fare musica?
«Egli chiude con la musica intesa come intrattenimento e le conferisce un impegno, una responsabilità superiore. Ed è come se improvvisamente mutasse l’idea stessa dell’ascolto. Prima di Wagner, l’ascolto della musica è qualcosa di strumentale al luogo sociale. Mozart fa musica per la corte. Kant parla di una musica da tavola, cioè qualcosa destinata a rallegrare chi l’ascolta. Oggi diremmo che è un puro esercizio per il tempo libero, allora una mera piacevolezza. Ecco Wagner annienta letteralmente questa concezione, caricando la musica della possibilità di giungere attraverso lei a una forma di redenzione. È come se Wagner dicesse: non ascoltatemi perché la mia musica vi diverte, ma perché essa è il linguaggio universale».

È noto che Nietzsche passò dal grande entusiasmo per Wagner alla grande delusione che poi si trasformò in una critica molto violenta nei riguardi del compositore. Come mai?
«Per il motivo che indicavo. Nietzsche comincia a criticare Wagner nel momento in cui vuole tornare a una musica intesa come divertimento, che procuri spasso. Nietzsche che riabilita Bizet, o che a Torino ascolta la banda musicale, va nella direzione opposta a quella segnata dall’autore del Parsifal».

Si è spesso parlato dell’influsso che Schopenhauer avrebbe esercitato su Wagner, almeno dal Tristano al Parsifal. Lei è d’accordo?
«Non c’è dubbio che la lettura del Mondo come volontà di rappresentazione fu per Wagner essenziale. Ma ritengo errata l’interpretazione di chi desume da questo un debito nei riguardi della filosofia. Il problema di Wagner è un altro. E risiede nel tentativo di creare una musica che sia all’altezza della grande filosofia tedesca, una musica cioè che sappia interpretare il valore della vita, e lo sappia interpretare anche attraverso la morte. Quando Brunilde esclama “Io vedo morire il mondo”, noi assistiamo al supremo sguardo di un dio che legge il perire del mondo. Compito della musica sarà quello di interpretarlo. Si capisce qui come l’ascolto divenga una forma di appello supremo che non condivide più nulla con l’esperienza ludica. Il solo nesso che conta è quello con l’ethos che il suono può esprimere: è il raccoglimento, la redenzione, la catarsi. Solo così, del resto, la musica può diventare una misura del mondo. Credo anche che Wagner a un certo punto ebbe paura di tutto questo».

In che senso?
«Nel senso che in lui si può notare anche l’anticipazione di ciò che sarà la musica nel consumo di massa. La composizione strumentale, l’aumento del tono che diventa strepito anticipa, in qualche modo, la musica che oggi domina nelle piazze e negli stadi: c’è un obbligo dell’ascolto che impegna più le orecchie che non l’ethos dell’individuo. Non so se Thomas Mann che pure amava Wagner intendesse questo, ma quando scrive nei Buddenbrook “Questa non è musica, è il caos”, diventa evidente il passaggio estremo dal suono al rumore. È interessante vedere come la musica dodecafonica abbia provato a raggelare questo rumore. Direi che gli aspetti più plateali di uno Schoenberg vanno nella direzione opposta al rumore wagneriano. In fondo Schoenberg lavorava in quella zona limite sulla quale provò a creare una musica che si potesse ascoltare senza gli ascoltatori. Era questo il massimo della purezza alla quale aspirare».

Che cosa pensa dell’annosa querelle sul fatto se Wagner sia o no di destra?
«Le chiavi della politica non aprono le porte della grande arte. Wagner è al di là del bene e del male, cioè al di là della destra e della sinistra».

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