Battiato sogna l’imperatore

Gino Castaldo in La Repubblica, 22 settembre 1994
(recensione a Manlio Sgalambro – Franco Battiato, Il cavaliere dell’intelletto)

Palermo – Opera insolita e celestiale. Insolita perché vive di un singolare rapporto tra diversi piani di linguaggio, uno recitato e densamente filosofico, e l’altro musicale, danzato, non verbale. Celestiale perché nell’evocare la figura di Federico II, il «Cavaliere dell’intelletto», l’opera ne rinnova la suprema ambizione, ovvero quella di unire, o meglio far dialogare, la civiltà cristiana con quella dell’Islam, il che come ben sappiamo è un’antica vocazione di Franco Battiato. Il tema, in qualche modo, era già contenuto in embrione in Gilgamesh, dove con ardita trasposizione temporale, la vicenda si spostava – per una scena – nella Sicilia “arabizzata” dell’epoca di Federico, considerata un’era felice, un rinascimento della cultura, luogo di incontro di diverse vie alla saggezza. Curioso casomai notare come questa rievocazione dei primissimi secoli del millennio, quando in Sicilia o in Andalusia le due civiltà si sono influenzate reciprocamente, avvenga oggi, in un ultimo scorcio del medesimo millennio dominato invece da una violenta conflittualità tra i due mondi. Questa volta Battiato non ha curato i testi, affidati alla penna di Manlio Sgalambro, il che gli ha permesso una insolita leggerezza, una limpida e sognante soavità che affascina già dal primo ascolto. Che Battiato del resto stia procedendo più verso un lavoro di sottrazione che di accumulo, è piuttosto evidente. La musica di questo Cavaliere dell’intelletto è un distillato lieve, una quintessenza spirituale il cui obiettivo finale sembra essere il silenzio, o meglio la risonanza del vuoto, la sospensione temporale. A differenza di altri compositori contemporanei, Battiato non adopera metalinguaggi, non si riferisce cioè al linguaggio stesso, ma punta decisamente altrove, cercando di cogliere la corrispondenza tra il suono e una zona interiore che vive tra emozione e spiritualità, il che ovviamente è motivo d’imbarazzo in ambiente accademico, ma che produce forti suggestioni, molto vicine alla semplicità terminale, quella a cui si arriva appunto dopo un lungo lavoro di sottrazione. Sgalambro, dal canto suo, vicino nelle intenzioni al terribile vecchio Parmenide, anch’egli evocato nell’opera, usa parole che pesano come il piombo, fin dall’introduzione recitata in cui si offre una visione disperata e sublime della Sicilia: «Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi…», parole ovviamente tanto più impressionanti perché dette nella splendida cornice della Cattedrale di Palermo, e così via fino ad introdurre la figura dell’eroe, tra pezzi recitati da quattro attori (Alessandro Vantini è Federico II, Tania Rocchetta è sia Isabella che Costanza, ovvero le due mogli di Federico, Giancarlo Ilari nella parte di Michele Scoto e Toni Servillo in quella di Ibn Sab’yn), cori, voci soliste, ovvero lo stesso Battiato più il soprano Cristina Barbieri e il basso Stefano Rinaldi, che nel secondo atto propongono uno straordinario duetto, e alcuni frammenti di danza, curati da Raffaella Rossellini, tra cui lo splendido numero dell’addestramento del falco, ennesima metafora del rapporto tra uomo e natura, raggiunto tramite la scienza e la filosofia. Quando c’è, il testo insinua contrasti profondi, tocca i grandi temi dell’uomo, Dio e la morte, seguendo la figura di Federico e vagheggiando (come già in Gilgamesh) il tema della regalità come metafora dell’eroismo della conoscenza, e del confronto tra l’allargamento dei confini interiori in parallelo a quelli dell’impero terreno. Il tutto risulta fortemente spiritualizzato, ma scarsamente cattolico, per non dire religioso, dominato anzi dai dubbi del filosofo, e va dato atto alla chiesa di Palermo di aver dimostrato una notevole apertura nell’ospitare un’opera che, seppur vivificata dallo splendido scenario, si domanda in fondo qual’è davvero il rapporto tra l’uomo e il divino, e dove va cercato. Lo sviluppo è scarsamente narrativo. Si snoda in una serie di quadri, che colgono i momenti cruciali della vicenda, con una scenografia essenziale, costituita da una grande schermo dove luci e qualche diapositiva fanno da sfondo all’azione. La musica vive di un perfetto equilibrio, forse mai raggiunto prima da Battiato, tra la ispirazione extraoccidentale e il canto lirico. Non si avverte alcuna contraddizione tra le due strade, come se davvero la figura di Federico II avesse funzionato da elemento catalizzatore, rendendo naturale quello che naturale non è, almeno allo stato attuale delle cose. Le stesse contaminazioni tra i suoni acustici dell’orchestra, quelli elettronici delle tastiere, i campionamenti, e perfino i rumori, appaiono straordinariamente riuscite, senza asprezze di alcun genere. Un’opera da riascoltare con attenzione (le repliche saranno a Jesi dal 7 al 9 ottobre e a Cosenza dal 28 al 30 dello stesso mese), senza visioni preconcette, lasciandosi trasportare dal flusso delle suggestioni che fanno rivivere antiche ambizioni che la nostra civiltà ha poi perso, e una più profonda etica dell’ascolto, volontà nella quale si ritrova una perfetta intesa tra i due autori, i quali per il finale hanno immaginato una stridente diapositiva del traffico palermitano di oggi, sottolineata da opportuni rumori, riportando brutalmente alla contemporaneità quanto rischiava di rimanere confinato nel sogno dell’antichità. Impeccabile l’orchestra Sinfonica di Palermo diretta dal Maestro Marco Boni, che ha lasciato a Filippo Maria Bressan la direzione del coro.

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