Piccola glossa al Trattato della concupiscenza

Manlio Sgalambro in Jacques-Bénigne Bossuet, Trattato della concupiscenza, De Martinis & C., 1994, pp. 7-10

Le sottili ricognizioni di Bossuet sulla concupiscenza superano il quadro cristiano-cattolico non nel senso che ne prescindono ma nel senso che buttano oltre di esso i germogli. Una cultura che non esamini le proprie smodatezze, si può mai concepire? Bossuet non patteggia nemmeno col suo cattolicesimo. Da vero rappresentante dello spirito ne esamina anche le sregolatezze e le supponenze. E su un sapere che sia solo curiosità (e quanti saperi oggi non sono che indisponente curiosità) egli lancia l’anatema. Anatema contro ogni anima curiosa. Sviscerare la concupiscenza suppone passione. Una passione dello stesso tipo. Anzi più forte, come aveva avvertito Spinoza. La critica dei sensi viene dunque affrontata sistematicamente. Ma ancora sulla curiosità occorre dire che non è fustigata soltanto quella che immagina oggetti vani ma la più gloriosa e imponente: quella dello spirito. Cosa dire infatti del meraviglioso brano che magari ci strazia le carni ma che subito dopo riconosciamo riverenti? Sotto giudizio è infatti la curiosità di quelli che «si immergono nella storia, nella filosofia o in qualsiasi genere di lettura, sopratutto se si tratta di novità, di romanzi, di commedie o libri di poesia, lasciandosi talmente possedere dal desiderio di conoscere da non possedersi più essi stessi. Poiché tutto questo altro non è se non una forma di intemperanza, una infermità, una sregolatezza dello spirito, un inaridimento del cuore, una miserabile schiavitù che non ci lascia l’agio di pensare a noi stessi…». Il disgusto della frivolezza che Bossuet ci comunica non risparmia il lusso dello stesso spirito. Ci sentiamo dei barbari coi nostri libri, degli idolatri coi nostri quadri. Subiamo la tentazione delle nostre teorie, per cui sbaviamo. Bossuet ci introduce a sospettare la fascinatio nugacitatis persino nell’amore più casto, nell’«amore per la verità». Anche questa dunque una tentatio concupiscentiæ? Una critica degli occhi è indispensabile. Bisogna compensare la delizia di questo senso con la parte del diavolo. Questi occhi avidi, mai sazi, inseguono le minute volute delle cose, e si ingozzano di precarie immagini. Per una parte la vista è inutile. Per questa parte Bossuet è implacabile: ritira i tuoi occhi da queste cose illusorie, egli comanda. Sdegna questi maliziosi allettamenti, egli aggiunge. E infine: «Non amate il mondo dove tutto è illusione e corruzione della concupiscenza degli occhi». In questa teoria della vista si inseguono elementi che assegnano al mondo quella parte che il nostro orgoglio conferma. Noi siamo superiori al mondo. Insomma l’orgoglio dello spirito ci sembra indiscutibile e perverso. Bossuet vede solo la perversione. Qui chi scrive dissente. La caduta dell’uomo consiste principalmente nell’orgoglio, scrive Bossuet. «Precipitando dall’alto e decadendo dalla condizione divina, l’uomo cade essenzialmente su se stesso». Queste parole del De civitate Dei di S. Agostino danno la nostra misura e indicano il nostro volere. Qui ci opponiamo a S. Agostino e a Bossuet. Noi vogliamo cadere. Sosteniamo con tutte le nostre forze il principium individuationis legato alla caduta. L’orgoglio non è che un altro nome per la stessa volontà di cadere. Tutto ciò è descritto dallo stesso Bossuet in modo mirabile.
Cosa cambia allora? La nostra accettazione al posto del suo rifiuto. Ma ascoltiamo Bossuet: «Dovevamo prima cadere su noi stessi perché, come quel corso d’acqua che si rovescia prima sulla roccia e scava profondamente nel punto in cui cade, così l’anima nostra, cadendo su se stessa, produce dentro di sé una prima piaga profonda. L’impronta della sua eccellenza, della sua grandezza… vuol pascersi dello spettacolo della sua perfezione». Noi ci fermiamo qui, Bossuet prosegue sino alla condanna. Ad un certo punto Bossuet ci dà una descrizione infernale della concupiscenza: «Essa si muove con movimenti irregolari, a seconda di come soffia il vento. Non soltanto si vogliono cose diverse se si è sani o ammalati, se si sta vivendo l’infanzia o la giovinezza, la maturità o la vecchiaia, se si è in un periodo buono o cattivo; si vogliono cose differenti di notte, quando si presentano i pensieri cupi, o di giorno, quando vengono dissipati… Oggi ci si trova diversi da ieri senza sapere il perché, tranne che si ama il cambiamento. Ma non si cambia per essere migliori». Questo è il lato disprezzabile della concupiscenza e non si può dire convenire con Bossuet. L’altro lato invece è tutto dalla nostra parte. Vorremmo chiedercelo ancora: cos’è dunque la concupiscenza? L’amore di sé e della propria grandezza, infine. La nostra volontà al posto di quella di Dio, ecco come la definiremo. Quanto a Bossuet, la concupiscenza deve scomparire davanti all’amore più alto, all’amore di Dio. Ma noi abbiamo orrore per Dio e amore per la nostra grandezza.

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