“Il Nord? Non mi avrà”

Giuseppe D’Avanzo, La Repubblica, 14 maggio 1995, p. 11
(intervista a Manlio Sgalambro)

Il posto che non c’è
Il disoccupati a casa in attesa del 30 giugno: quando scade il blocco delle assunzioni

Tra i giovani siciliani rinasce il mito del posto pubblico

Catania – Che gli piaccia o no, Paolo Carrara è diventato il simbolo dei (cosiddetti) «disoccupati volontari», ovvero dei giovanotti del Mezzogiorno che all’emigrazione nel Centro-Nord preferiscono la precarietà a casa di mammà e papà. 26 anni, laureato in sociologia della cultura, tesi sui Pink Floyd («Analisi sociologica di un fenomeno rock»), Paolo ha raccontato all’Espresso: «Perché dovrei andare al Nord? Torino è una merda. Milano è un posto dove ognuno si fa i cazzi suoi. Io sarò un sognatore, ma voglio provare a creare qui a Palermo un circuito musicale…».
Apriti, cielo! L’Italia operosa si è accesa di sdegno. Maligna: pigri e inerti, ecco come sono i meridionali, signora mia… Paolo in questi giorni lavoricchia, a Ragusa. «È uno dei miei lavoretti. Per SiciliaTurismo stiamo recensendo tutte le strutture turistiche dell’isola per farne una banca dati. Non si azzardi nessuno a darmi del pelandrone. Passo da un lavoretto a un altro. E’vero, sto a casa con mammà (insegnante elementare) e papà (impiegato Fiat, prossimo alla pensione), ma loro mi hanno campato abbastanza, la faccenda oggi è chiusa. Sono anni che non chiedo più nemmeno una lira. Non chiedo nulla ai miei, non piatisco la limosina dallo Stato: posso coltivare un mio sogno? Insomma, io che ho detto? Ho espresso il più banale dei desideri: voglio starmene a casa mia, tra la mia gente. Sono stupito del clamore che ne è nato. Ma che forse il milanese se ne andrebbe contento e felice a Dusseldorf? E’poi non è che qui si faccia una vita leggera, è più difficile essere palermitano che milanese. Questa mia città bisogna difenderla dal peggio, ogni giorno, ad ogni passo. Come tanti altri, faccio quel che posso. Ho manifestato per il rinnovamento dell’amministrazione, sono volontario nel centro sociale di un quartiere degradato, il Borgonovo, e ho la fissa della musica. Facciamo una rivista, suoniamo nei pub e voglio – udite, udite – creare anche qui un circuito per i giovani musicisti della città. Come è accaduto a Catania. Si potranno fare delle ironie, ma basta andarci a Catania per esserne travolti dalla vivacità. Che sia musicalmente la Seattle italiana non lo dico io, ma addirittura Musica! di Repubblica. Penso che Palermo possa diventare come Catania e, in ogni caso, voglio provarci…».

Andiamoci, allora, a Catania e lasciamo da parte la musica. Catania non è un posto qualsiasi per parlare di disoccupazione. A sentire gli scienziati sociali, ha alcune particolarissime caratteristiche. Il numero dei senza lavoro. Sono 185mila e la cifra cresce di 18mila unità all’anno. La qualità della disoccupazione. Il 90 per cento sono «inoccupati» ovvero non hanno mai avuto un contratto di lavoro vero e proprio (è la percentuale più alta del Paese). La scolarizzazione. Il 68,2 per cento ha un titolo di studio superiore (quota più alta del Mezzogiorno). I tempi di ingresso nel mercato del lavoro. Il 37 per cento attende mediamente più di sei anni, altro record. Ma l’exploit più rumoroso è un altro: a Catania c’è, come dicono i sociologi, «l’offerta di lavoro più rigida del Sud». Il 10 per cento ha rifiutato un lavoro; soltanto il 4 per cento dei disoccupati si sposterebbe «in ogni caso»; il 30 per cento non si muoverebbe da casa «in nessun caso». Quel che resta degli altri aspira, più che a una buona retribuzione, alla «sicurezza e stabilità» del posto di lavoro. I tre quarti di costoro dichiarano di «preferire un’occupazione nel settore pubblico, ed è questa la quota più alta in assoluto del Mezzogiorno». Scrive la Fondazione Agnelli: «Questo atteggiamento si accompagna a un maggiore pessimismo nei confronti delle possibilità future di trovare lavoro, confermando ulteriormente che la spinta alla mobilità non è da correlarsi a scarse opportunità né al maggior bisogno». E allora perché a Catania il disoccupato è inamovibile? Il suggerimento di ricercatori è di cercarne le ragioni tra le pieghe di «una mentalità più chiusa», nel «desiderio di non voler più emigrare», oppure in «un atteggiamento rivendicativo che spinge a pretendere il diritto al lavoro nella propria terra». «L’emigrazione di Mimì metallurgico avveniva per cooptazione, filiera – spiega l’economista Mario Centorrino – Era fatta di contadini che facevano la fame nonostante il durissimo lavoro dei campi al cui confronto il lavoro in fonderia era una passeggiata di salute. Finito il lavoro, Mimì poteva anche vedere per la prima volta una gran signora profumata e impellicciata al passeggio. Ma oggi… Più che di «disoccupato volontario», parlerei di «disoccupato in famiglia». Per la maggior parte sono ragazzi che, esaurito il percorso formativo, se ne stanno 6/8 anni in famiglia non tanto perché non trovano lavoro ma perché preferiscono ritardare il loro ingresso nel mercato del lavoro, ritenendo questo investimento di tempo vantaggioso per la loro vita. Si “svegliano” intorno ai 26/28 anni spesso per mettere su famiglia o nel timore di essere esclusi definitivamente, causa età, da ogni occasione».

Filosofo solitario, senza laurea e senza cattedra, anche Manlio Sgalambro, odiatissimo dall’Accademia, amatissimo dal solo Massimo Cacciari, autore dei testi dell’ultimo disco di Franco Battiato, si è concesso ai suoi tempi una lunghissima adolescenza, fatta di letture forsennate quanto appassionate e di impieghi precari. Piccolo possidente di un agrumeto, è stato compilatore di tesi di laurea e financo cameriere. Sgalambro, 70 anni, vive nel centro di Catania. «Indifferente alla società» (Dell’indifferenza in materia di società è il titolo di un suo libro), Sgalambro è dalla parte di Paolo il sognatore.
«Se un ragazzo sogna è un fannullone. Se sognano cento, mille, diecimila ragazzi la categoria del fannullone perde la sua negatività, muta di segno, ci svela aspetti positivi. Questi ragazzi scoprono il sogno come unica loro attività. Ma che cosa possono sognare dopo quella nuova esecuzione di Luigi, quel taglio di testa, quella mutilazione che è stata la fine di ogni idea di società migliore, società giusta, comunismo, sinistra, insomma di tutte le denominazioni di un Dio? Nulla. Non possono sognare nulla. E, infatti, i ragazzi del Sud, di questa mia isola, non sognano niente. Il loro è un sogno vuoto, sognano di sognare, il loro è il sogno di un sogno. Il rifiuto di un’occupazione o la voluttà della disoccupazione sono il residuo di quella mutilazione orribile. E d’altronde il lavoro non migliora un bel niente, il lavoro non risolve nessuno dei problemi essenziali della vita. Perché dovrebbero crederlo i giovani del Sud ai quali è stata somministrata una rappresentazione del lavoro poco seria e poco rispettabile fatta di capannoni presto vuoti e inutili, dove l’industrialismo è stato un fenomeno artificioso, scherzo dei politici, giocattolo, assistenza. Questi ragazzi sono come obbligati a sognare. Anche a sognare di possedere. Se rimangono vuol dire che appagante è non solo il possedere ma anche il sognare di possedere. Quindi? Quindi, a quei ragazzi dico: rimanete qui, non andate a fare i lustrascarpe al Nord».

Dal sogno ai cessi, il passo non è corto, ma accade sempre a Catania. L’amministrazione ha bisogno di sei «pulizieri addetti ai servizi igienici» del Giardino Bellini e del Cimitero. Il sindaco Enzo Bianco la racconta così: «Se non sei iscritto al collocamento come puliziere non ti chiamano. Se ce n’è iscritto soltanto uno, chiamano quello, ma poi non passano ai fattorini o, che so, ai netturbini. No, passano la domanda ad un altro comune della provincia. E i comuni qui sono 58. In un paio di anni, se va bene, avrò i miei sei pulizieri a fronte di centinaia di disoccupati che vorrebbero quel posto».
«Ma sì, lo “scandalo dei cessi” è stato montato, ma bisogna anche sapere che a volte per avere un lavoro, bisogna rifiutarlo. Se si è pragmatici… È un paradosso, ma è così…».
Davanti agli occhi neri come il carbone di Daniela Suriano, responsabile del Centro Informazione Disoccupati, scorrono i drammi, le aspettative e le pigrizie dei disoccupati di Catania. Daniela parla a raffica, impossibile interromperla e, mentre parla, fuma e si tormenta i capelli.
Dice: «È facile dire disoccupato, ma che disoccupato sei? Operaio in cassa integrazione? In mobilità? Sei un articolista, viene cioè dai programmi di lavoro socialmente utili o sei un precario del pubblico impiego o sei un iscritto all’articolo 16? Mamma mia, ma lei non sa nemmeno che cosa è l’articolo 16! L’articolo 16 ha sostituito i concorsi per le qualifiche di livello inferiore. Oggi c’è la chiamata diretta dalle liste del collocamento. Tu hai la licenza media vai lì e ti iscrivi a 3 categorie, che so: netturbino, necroforo, ausiliario socio-sanitario. Ovviamente è zeppo di diplomati e laureati. Che c’entra questo con i cessi di Villa Bellini? C’entra. Ascolti. Quel lavoro era a tempo determinato. Tre mesi. Fino a 120 giorni si mantiene la qualifica di disoccupato, ma aumenta il tuo reddito. Facciamo di cinque milioni. Rimani allora nell’elenco, ma con un reddito maggiore e finisci indietro. A questo punto ti conviene accettare o no? E, se dopo il tuo contratto di tre mesi, chiamano a tempo determinato? Che fai, stai fuori? Un esempio? Ecco qui. È successo a Osvaldo Sabister. Lo chiamano come “affossatore necroforo” nel comune di S. Gregorio. 90 giorni di lavoro. Lui però, Osvaldo, ha un buon piazzamento a Catania come netturbino e ha sentito dire che tra un po’ ci saranno delle chiamate a tempo determinato. E allora viene qua e mi chiede: che faccio, accetto? Non ho saputo che cosa dirgli. Se accetta, lavora per 90 giorni, ma se accetta può essere scavalcato nella lista dei netturbini ammesso che davvero il Comune abbia bisogno di netturbini. Il che non è detto. Il guaio è che qui tutti attendono il 30 giugno. Non sa neanche che succede il 30 giugno? Allora non sa niente! Ascolti. Il 30 giugno scade il blocco nazionale delle assunzioni nel pubblico impiego. E allora per quella data gli enti locali e non solo quelli dovranno quantificare i carichi di lavoro e ridisegnare le piante organiche. Ci saranno molte, forse moltissime chiamate. E sono tutti qui in attesa… Diciamoci la verità. L’emigrazione è fatta di spinta e di attrazione. Il disoccupato è spinto a muoversi dal bisogno, dal disagio, da un bassissimo livello di consumi. Tutto questo non c’è e quando c’è, oggi come ieri, si parte. Qualche giorno fa un falegname 45 anni, tre figli, se n’è andato a Pordenone. Per molti quel bisogno non c’è, c’è tanto lavoro precario e quindi manca la spinta.
E manca anche la forza d’attrazione. Le piccole e medie aziende private del Nord non hanno nessuna attrattiva. Oggi ti danno il lavoro, domani te lo tolgono e in mezzo c’è sempre la bassa qualità della vita. Dove sono le case al Nord? E quando ci sono, quanto costano? La Fiat, sì, esercita ancora un fascino. Cerca 3.000 operai specializzati da impiegare a Torino e solo io ho compilato una cinquantina di domande. Ecco spiegato perché tutti rimangono in attesa del posto pubblico. Giusto, no?».

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