Postfazione – Il destino del corpo. L’uomo e le nuove frontiere della scienza medica

Manlio Sgalambro in Alessandro Pumo, Il destino del corpo. L’uomo e le nuove frontiere della scienza medica, Nuova Ipsa Editore, 2002

Mi trovo di fronte a un buon libro e a buoni argomenti. Ma, ahimè, le mie evidenze mi portano altrove.
Trovo veramente che l’uomo è il suo cadavere. E io che dico “io” provengo da un’accozzaglia di parti, come un breve sospiro o un flato. Nulla di importante nella sordida economia dell’universo. Il dilemma di Sartre citato dall’Autore (il corpo o è una cosa tra le cose o ciò per cui le cose si manifestano) ha una risposta (misera come il dilemma): che esso è una cosa a cui si manifestano cose. La conoscenza trasuda dal corpo come la sua verità. Il corpo confuta le illusioni che si fa la mente con il suo corrompersi. Nel linguaggio del corpo si traduce la disgregazione perenne. La conoscenza che ha o finge di avere pochi contatti col corpo, che vanta la leggerezza di una libellula, non trattiene niente nel suo pugno. Tutto è, al più, il nomen di qualche divinità: “It’s all in pieces all coherence gone”.
Quanto al corpo non vi vedo che la resistenza opposta alla sua stessa distruzione.
Ho delle remore a ricordare questo brano dell’Apparecchio alla morte di Alfonso Maria de’ Liguori, ma lo devo fare: “Mira come quel cadavere prima diventa giallo e poi nero. Dopo si fa vedere per tutto il corpo una lanugine bianca schifosa, e scaturisce un marciume viscoso e puzzolente, che cola per terra. In questa marcia si genera poi una gran turba di vermi, che si nutrono poi delle stesse carni. S’aggiungono i topi a far pasto su quel corpo, altri girando da fuori, altri entrando nella bocca e nelle viscere. Cadono a pezzi le guance, le labbra e i capelli… I vermi, dopo aver consumato tutte le carni, si consumano da loro stessi; e finalmente di quel corpo non resta che un fetente scheletro…”. Può sembrare di vedere qui l’essere per la morte di Heidegger? La morte di cui parla costui è umana, troppo umana… l’essere fabbrica cadaveri.
La terapia è come la pratica ed essa coltiva i suoi imperativi. Qui vedo il libro e qui le sue ragioni. In ogni terapia vi sono insiti quei valori affermativi in fede di cui il terapeuta ha mano libera. Ma Ivan, infine, non si salva.

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