Manlio Sgalambro in Perelandra. Semestrale di cultura e idee, III, n. 5, gennaio-giugno 2003, pp. 9-13
«Vago senza sapere dove. Gli stimoli visivi mi sopraffanno, come se non potessi più ordinarli… L’elogio cartesiano della vista, nella Diottrica… il senso più universale, il più nobile… non sembra ripetibile. Il cielo è altrettanto confuso che un marciapiedi di Calcutta, la circolazione delle stelle altrettanto bizzarra di quella di Rue Pigalle…» (Manlio Sgalambro).
Io appartengo al sistema solare, il resto non mi dice niente. Le stelle che vedo ad occhio nudo, la luna che percepisco quasi con tenerezza, insomma quello che fa parte di questo sistema mi commuove e ne ho un senso vivissimo di partecipazione. Mi sento intimo a una stella più che a qualcuno con cui ho spartito il mio vivere quotidiano. Il resto dell’universo mi sembra selvaggio e ne ho paura. Sento quest’universo desolato ma il sistema solare mi riscalda, mi riempie di emozioni benevole e forti. Forse ciò che chiamiamo vita è proprio l’emozione che ci dà questo luogo. Certi esseri l’avvertono evi reagiscono tè ciò peraltro che si definisce vita). Come se esso ci amasse veramente. Essa ci desta al vigore e le attese si rincorrono come se rimbalzassero l’una sull’altra. Verso il sistema solare non è mai andato un cenno, un rivolgersi ad esso, una riconoscenza. Roba da calcoli e null’altro, questo è stato tutto. Tuttavia io ammiro un tipo che dice così: «le soleil vrai consiste tout entiers dans la détermination par l’astronomie de ses éléments numériques» (Brunschvicg, Écrits philosophiques, Paris 1958, III, p. 132).
Io appartengo al sistema solare. Alla fine di un numero di atti e di costruzioni complesse lo percepisco come se mi stesse davanti. Me ne sento abbracciato e protetto. Non gli devo né mi deve niente.
Mi fido più dei capricci della natura, voglio dire dei suoi terremoti o dei suoi uragani, che di quelli di un tiranno. So che dopo posso sdraiarmi al sole e riempirmi con voluttà del suo tepore e anche immaginarmi una carezza, mentre il tiranno vuole la mia pelle. Insomma questo sistema in cui vivo (intendo il Sistema solare) mi riposa e mi aiuta e la sua cura (un bel mattino che sorge lo considero tale) mi protegge più dell’interesse che potrebbe avere un Dio tale e quale. Padre e madre ci fa nascere e ci protegge, indifferente a noi come a un ciottolo o a un meteorite. La morte che ci colpisce non cela la rabbia di nessuno, nessuno ci vuole morti. (In teologia la morte deriva da Dio, come sostiene Agostino, non da necessità naturale). Luce e calore indifferenti a tutto illuminano e riscaldano senza che nessuno lo voglia ma semplicemente perché sono là. «È evidente che nell’apparire del sole, nel senso di rilucere, raggiare sperimentiamo… l’irradiazione come calore. Il sole splende, vale a dire esso si mostra e riscalda». Accosto all’idea di calore si porrebbe dunque vicina l’idea di essere. Sembrerebbe questa la maniera come i greci l’intendevano. In ogni caso come l’intende Heidegger. Questo confusionario è riuscito a indirizzare a un’idea termica dell’essere. Non solamente ottica. Essere come calore. Per me questo è l’“essere” o quanto meno è ciò che mi convince che possa esserlo. L’essere è tutto qui. Se gli devo dare un senso (ma me lo proibiscono) esso è il sistema solare. Torno a dire, la comunità del sole, delle stelle e del cielo – enti ἄψυχα, cioè privi di vita – mi quietano proprio per questo. Di una vita che essi avessero diffiderei, essendo che la mutevolezza o come la chiamano la libertà sarebbe il suo contrassegno. E questo mi esporrebbe ai colpi insensati di qualcosa di vivo e quindi di torbido e confuso. Così invece non né afferro altro che la limpidezza. Al di là di ogni vita, o al di qua, gradisco la magnificenza di tutto ciò e non me ne turbo. Questa quiete impassibile – non, ripeto, la quiete equivoca e in agguato di ciò che è ‘vivo’ – soddisfa i miei più arditi desideri. Sotto il comune sguardo sfilano le stesse cose, il giorno la notte, il cielo e il sole o la pioggia… Guardarli è già riempirsene lo spirito, sentirne i profumi, tutto questo mi appaga. Sì, io appartengo al sistema solare, esso non mi tiene in nessun conto ma questo mi conforta più che un Dio vigili su di me o che io, peggio ancora, esista per lui. Il sistema solare è puro. Non lo si scambi con la ‘natura’ terribilmente piena di germi vitali (a quel che ne dicono). Mai che mai mi diletterebbero alberi e animali sculettanti e simili. Devo dire che ho una antipatia di specie per il genere ‘uomo’, come se io fossi qualche altra cosa, qualche altra specie. Ma quale? Spesso mi avviene di cercare la specie alla quale vorrei appartenere. Che essere vorrei essere? Un minerale, una roccia, un asbesto? Il sistema solare delimita nell’infinità supposta di un universo pauroso e selvaggio un’isola felice. E mi attraggono anche le sue leggi e le regolarità che scandiscono i suoi moti. All’esterno dunque regna il buio e il terrore mentre quest’isola di luce si mescola alla nostra vita. La sua indifferenza mi colma l’animo. Sento che nessuno mi ha di mira, non mi aspetto complimenti né minacce e con la stessa nobiltà di un insetto faccio il mio corso. Percorra una strada già tracciata o la segua per la prima volta seguo sempre i segni che quest’isola felice mi traccia nella più perfetta ignoranza di me e mi tengo stretto ad esso, a questo sistema solare, come un bambino. Che mi importa se domani non trovo più quella o quell’altra opinione, e muta, a quel che sembra, l’intera fisionomia delle cose che interessano la specie di cui malvolentieri faccio parte. Se alzo il capo vedo l’immutabile sole, e il cielo, celeste o cupo che esso sia, la sua presenza è sempre lì. Le verità mi rotolano sotto gli occhi come teste mozzate, ma Cassiopea e il Gran carro sono sempre al loro posto. Questo mi assicura che nessuna vita vivente ha dato mano a tutto quanto, nessuno lo ha fatto per nessuno. E in questo ritrovo la mia energia e un altro senso dei miei rapporti. Perché essi dovrebbero avvenire per forza con esseri umani? Che io possa avere un rapporto con gli elementi, che espormi all’aria possa darmi, più dei versi di qualche poeta o di una relazione con qualche simile, il senso dell’universale, di ciò sono convinto. Io appartengo al sistema solare, dunque. L’universo è muto e la coscienza pure. E quanto alla società, essa è morta. Nasce in me invece un sentimento per la Terra, un caldo sentimento di appartenenza e di cura. Lo trovo espresso con dignità romana nel Somnium Scipionis «Homines enim sunt hac lege generati qui tuerentur illum globum quem in hoc templo medium vides, quæ terra diciture» (III, 15). All’interno del sistema solare noi viviamo e siamo. Qui sono le nostre radici e l’appartenenza. Si libera in noi una disposizione affettiva verso esso e, per così dire, il senso di una ‘patria’, smarriti come siamo in un cosmo selvaggio. Sì, qui ritroviamo la ‘cara patria’. Nel grandioso avvio alla seconda parte della sua “opera principale”, il sistema solare è fatto intravedere da Schopenhauer come il vero ‘mondo’ – «dies ist die empirische Wahrheit, das Reale, Die Welt» – su cui un’ammuffita crosta ha prodotto viventi e conoscenti («auf der ein Schimmelüberzug lebende und erkennende Wesen erzeugt hat»). Ma tutto ciò, come dice subito l’avvertenza, è da liquidare in quanto empirico, perché l’esistenza del sistema solare «per quanto immenso e grandioso possa essere, pure dipende da un unico sottilissimo filo: e questo è la temporanea coscienza nella quale esiste» («und dieses ist das jedesmalige Bewußtsein, in welchem sie dasteht»). Ciò nonostante, con un ennesimo tiro giocato alla gnoseologia di stretta osservanza, Schopenhauer dà spazio a quel sistema solare il cui norie fu proibito pronunciare e fa balenare la grama verità che un misero sistema solare è infine il vero oggetto della giusta riflessione. (Insomma, è questo “l’essere”!). La sua miseria non è dubbia e neppure i suoi limiti, e tutto ciò che dà esca alla nostra disperazione. Ma da esso riceviamo calore e luce e, in qualche modo, l’impressione di una benevolenza. (S’intende che essa non viene da nessuno). Quel che esso può, ci dà. In questa immagine è compresa la sua morte stessa. Attraverso la quale appare lampante la malasorte dell’individuo. Una immensa tristezza per quello che sarà ci afferra. Si morirà del tutto quando morirà il sistema solare, e anche i morti morranno nuovamente. Ma esso ci ha portato, ci ha fatto da padre e da madre. Il sentimento di appartenenza a questo sistema ci ritaglia uno spazio nel vagare cosmico. Qui sono le radici, questa è la nostra ‘cara patria’ cercata invano nella fallacia e nelle lusinghe. Ma il sentimento di contemporaneità a quel momento in cui il ‘FIAT’ si disgrega – “It’s all in pieces” – ci dà la misura e ci impone una norma. A partire da esso si svegliano le sopite energie morali, e guardiamo in faccia ciò che vi è di comune. E la prima umanità si ricongiunge all’ultima. E, ciò che non è possibile al genere umano mentre è in balìa delle potenze vitali, la sospensione della vita nella bellezza o nella contemplazione e, nell’istante, una forte e commossa immaginazione ci indicano entrambe quel che avrebbe potuto essere, e ciò che è si impregna del nostro rimpianto.