Sulla mia morte

Manlio Sgalambro in Franco Battiato, Attraversando il bardo. Sguardi sull’aldilà, Bompiani, 2014, pp. 44-45

Mi sono accorto che volere il bene di qualcuno è volere che egli non muoia. Ma egli muore veramente? Io non percepisco in me stesso la mia morte. Supponiamo che “io muoio” abbia lo statuto di un principio. Quando cerco di immaginarlo non riesco a farlo, per quanti sforzi faccia, perché a immaginarlo sono io. Ma io sono vivo. Questo non significa certo che io sia immortale, infatti è altrettanto vero che non riesco assolutamente a percepirmi come tale, e sfuggo, di conseguenza, sia all’uno che all’altro giudizio: né mortalità, né immortalità. Ma mi colloco in un’altra zona che chiamo “amortalità”. È in questo senso, però derisorio, che ho l’esperienza della mia eternità, come voleva Spinoza: Sentimus experimurque non æternos esse. Dove sta dunque il punctum saliens in questo così intrigato problema?
Le evidenze, bisogna ricordare, sono sempre date in prima persona: sono sempre le mie evidenze. Riguardo alla morte, le parole seguenti di Schopenhauer debbono essere prese alla lettera. “Abbiamo quindi il diritto”, dice, “di domandarci fino a che punto crediamo davvero nel nostro cuore a una cosa che in realtà è assolutamente impensabile. Non solo la mia morte è la sola cosa che nessuno può fare al posto mio, ma lo è tanto poco che è proprio ciò che fa l’altro. La mia morte è nel dominio dell’altro, non mio, la mia morte così fantasiosa quanto un racconto di fate. ‘La morte non è uguale per tutti’ si deve intendere nel senso più rigoroso. Non tutti muoiono, ma colui che non muore è chi non sa niente della propria morte. Solo l’ignorante, colui che vive inconsapevolmente, non sa infatti nemmeno di morire. Contrariamente a quanto afferma Spinoza, che solo il saggio ha l’esperienza dell’eternità, solo l’ignaro, invece, non muore.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *