Sgalambro, filosofia ascesi di pensiero per uomini dannati

Paolo Manganaro in La Sicilia, 5 marzo 2015, p. 19

Dio si ritira dal mondo, ma lui cerca di stanarlo. E senza Dio che lo reggeva, il mondo ritorna pura rappresentazione, plasmabile, polimorfa, ma sempre ostile

Con le parole di Manlio Sgalambro – “Philosophaster noster” – è l’appellativo con cui dovrebbe chiamarsi ogni filosofo, e lui stesso così si nominava. Credeva che filosofare non si può più nel senso pieno, alto della parola, come è andata fino a Hegel, Husserl, o Gentile.
«Le filosofie monumentali educavano all’idea di verità», mostrandola ad esempio. Ma oggi c’è assai più un modo indiretto di fare filosofia, attraverso la storia della filosofia. Questo aveva senso all’ombra dei grandi sistemi.
Ma dopo, con la loro fine? Heidegger e Popper, ciascuno a suo modo, hanno distrutto il modus operandi dei sistemi, lasciando quel deserto in cui l’unico saggio annuncia la fine del pensare come pensare della fine.
È la morte del sole. Il lumen obscurum, l’ossimoro Sgalambro, è chiarissimo, invece: si svuotano dall’interno i problemi fondamentali della filosofia, Dio, Mondo, Io, e questi gusci vuoti si riempiono di avversione, negatività, scontro.
Lui i “trattati” non li scrive più su Dio o sulla vita, anche se con l’aura dei vecchi trattati, ma direttamente sull’empietà e sulla vecchiaia, due momenti della cruda verità. Dio non si deve negare, si tratta con il massimo d’empietà, per riconoscerlo. Dio si ritira dal mondo, ma Sgalambro cerca di stanarlo dai suoi nascondigli: il Dialogo teologico è un trattatello esemplare di questa teodicea negativa, della giustificazione della cattiva causa di Dio, diciamo parafrasando Leibniz.
Il mondo, senza Dio che lo reggeva, perde ogni sostanza reale, ritorna pura rappresentazione, plasmabile, polimorfa, ma sempre ostile: il soggetto, l’io, resta il vero agente delle proprie pulsioni ondeggianti, ma è una volontà che deve infinitamente riorganizzarsi. deve cioè sopportare il peso immenso dei suoi simili, mentre la propria “indifferenza” o la “consolazione” non sembrano salvarlo.
Ma sia chiaro, siamo oltre il pessimismo! Sembra tanto declamato, il pessimismo, ma qui c’è altro! Sgalambro è più radicale, viviamo in un mondo pessimo, perché il suo orrore è lucido, meglio, deve essere lucido. Il pessimismo non basta, però, a connotare la sua filosofia.
Perché non è mai desunto da nulla, né dimostrato, come faceva il razionalista Schopenhauer, sine ira et studio. Semmai esso sta in coda come uno dei tanti ordini della maledizione, come la più risibile conseguenza di quel pensare teologico che è esso stesso una condanna di Dio e della vita.
E così, è vero, si parla di mundo pessimo, parafrasando il mundo non optimo di Weyman, ma sono bestemmie filosofiche pronunciate con la calma del pensiero puramente pensante, come se si procedesse con rigore in logicis et metaphysicis.
Insomma, la filosofia non è roba per anime pie o sgombre da pregiudizi, contemplazione o ricerca di verità, ma ascesi del pensiero per dannati e disperati: “damnatis et desperatis”, vorrebbe accennarci questo teologo anti-Spinoza. È una delectatio morosa sub specie æternitatis, soprattutto con sé stessi.
Così procede Sgalambro, prendendo alla lettera, con la sua lettera, l’affermazione hegeliana secondo cui la filosofia non è altro che il “mondo rovesciato”. È, questo rovesciamento, il mondo dei terrori che i filosofi hanno sempre esorcizzato, nascosto, quello delle infinite pene, che ora ci sono inflitte dal discorso di questo Hamann italiano, in nome di una ragione che ha perso l’angelica superbia – oziosa benevolenza del Tout est bien nei cieli della metafisica! – per diventare luciferina dispensatrice di tormenti speculativi.
Non si risparmia l’humor, il nostro Sgalambro, ma attenti, non sorridete, è la porta d’ingresso per la dannazione del lettore. Diciamo che a capo delle tensioni di Sgalambro c’è la forza dirompente di Chestov. quella sua apoteosi dell’infondatezza, che, su altri versanti, metteva in forse le ragioni stesse della filosofia.
Ma c’è soprattutto l’esperienza giovanile (ma lui si sarebbe offeso a sentirsi definire, in un momento qualsiasi della sua vita, giovane!) d’analisi con Kierkegaard, quel tentativo. poi abbandonato, di arrivare ad una soluzione “materialistica” dell’estetico.
Sono saggi, non molti, ma densi, che oscurati per lungo tempo. ritorneranno in una metamorfosi speculativa, soprattutto in Anatol, ossia al compimento del suo pensiero. Anatol, un flâneur dello spirito, l’estetica dopo la decadenza, il soggetto che si perde nella bellezza di un mondo senza idee. È il suo scritto stilisticamente più compiuto, fluente, quasi che per un momento la tensione del pensare si sia stemperata indugiando, in una “figura” della vita stessa.
Arriva subito dopo l’89, con la liberazione del mondo da una barriera mentale, più che politica. Sgalambro irrompe e salta sulla scena, oltre il muro della filosofia e passa con Franco Battiato alla musica.
Dinanzi alla pretesa gravità di un’essenza del nichilismo (Severino) che riproduce le beate certezze dell’essere scolastico, o all’accanimento ad esistere di una filosofia che vuole concludersi con il suo inizio eleatico, il guscio vuoto della metafisica di Sgalambro appare come risultato di un lucido sguardo verso ciò che si vuole negare da parte dei funzionari del pensiero: che la filosofia è un cadavere e che solo i vermi, su di essa, continuano a vivere della loro reciproca concorrenza.
Si pensi a come viene trattato oggi Heidegger dai filosofi da massmedia. Quello che di Heidegger è stato il punto d’arrivo, diventa facile scempio della tristezza ebraica della Shoha.
Sgalambro, fino all’ultimo, anche dopo l’11 settembre, si è rifiutato di prendere in considerazione il chiacchiericcio politologico, l’insinuazione politica nel pensiero, proprio e altrui. La tentazione della polis ha fatto del filosofo un “inutile acchiappatutto” che non sa in effetti, né comprendere né perdonare. Semmai deve condannare.
Sarebbe un lungo fluire di pensieri, di ricordi, parlare ancora di Manlio Sgalambro, data la mia antica amicizia e il confronto, che spesso era complicità, da tempi lontani. Ma mi fermo qui, Sgalamber noster.

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