L’illusione di Sgalambro: voleva far arrivare la conoscenza alla gente

Ottavio Cappellani in Libero, 2 giugno 2015, p. 32

Manlio Sgalambro manca da poco più di un anno. Massimo Cacciari, ricordandolo, ha detto: «Guardando agli ultimi eventi non posso che dire: Sgalambro aveva ragione, il mondo è pessimo». Voglio prendere inizio da questa affermazione per ricordare il filosofo nato a Lentini, che tanto tempo fa mi tirò fuori da Nietzsche tirandomi per i capelli.
Era davvero questo, che Sgalambro voleva? Giudicare il mondo come «pessimo»? Creare un solidissimo alibi a ogni forma di immobilità? O era soltanto una «necessaria» provocazione? (Ipotesi che Cacciari stesso ha ventilato). «Bisogna distinguere l’uomo dalla sua Opera», ripeteva spesso. Ogni critica nei confronti dell’io si frantumava contro questa semplice affermazione. L’uomo che ho conosciuto, nelle lunghe passeggiate in via Umberto a Catania, parlando di tutte le Apocalissi possibili (e soprattutto di quelle impossibili), aveva un rapporto conflittuale con la sua opera.
In una di queste passeggiate, Sgalambro aveva un plico con sé, il manoscritto di Dialogo sul Comunismo, che aveva deciso di publicare per la piccola casa editrice (poi naufragata) della quale per un periodo fu direttore editoriale. Al bar di piazza Vittorio Emanuele, bevendo il suo amato latte di mandorla («Guardala, è una bevanda oscena, pornografica, ma senza di lei non avremmo la vita su questo pianeta»), mi chiese di scriverne la quarta di copertina: «C’è la mia verità, qua dentro. E la verità va nascosta in una piccolissima casa editrice».
Fu questo il motivo per cui, anni dopo, litigammo amichevolmente, quando decisi di darmi al romanzo. Lui avrebbe preferito che mi dedicassi alla scrittura in codice, alla scrittura «tradizionale»: «Perché scrivere in volgare?».
Passò un po’ di tempo. Quando con Franco Battiato si apprestava a pubblicare L’imboscata, mi telefonò per invitarmi a una delle solite passeggiate. All’angolo con via Etnea mi disse: «Avevi ragione. Proviamoci». Con questo intendeva: proviamoci a fare uscire la conoscenza dai nostri codici e riversarla per le strade.
Abbiamo fallito entrambi. Lui, che attraverso Battiato voleva portare al maggior numero di persone il suo pensiero, e io, che in fin dei conti non ho spostato la conoscenza di una virgola con i miei romanzi.
Qual era la verità esposta nel libretto pubblicato per quella piccola casa editrice? La seguente: mentre il comunismo voleva una uguaglianza materiale, Sgalambro sperava in un comunismo del pensiero, lasciando alla natura le disuguaglianze materiali. In altre parole: è possibile fare di uno scafista o di un membro dell’Isis un Cacciari, un Severino, uno Sgalambro? Sgalambro sosteneva ci volesse un «niente» per riuscire nell’impresa, ma che ogni volta si arrivava «quasi» a un risultato. E che in quel «quasi» fosse nascosta la storia.
Quel “niente” doveva uscire dai codici, gli dicevo io. Abbattere questa sorta di capitalismo del linguaggio nel quale ci rotoliamo. Io con i romanzi, lui con le canzoni, non ci siamo riusciti. Ci sono altre vie?

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