Manlio Sgalambro «un metafisico distruttore»

Roberto Fai in La Sicilia, 12 ottobre 2015, p. 24
(recensione a Caro misantropo. Saggi e testimonianze per Manlio Sgalambro, a cura di Antonio Carulli – Francesco Iannello)

A poco più di un anno dalla scomparsa del «misantropo» filosofo lentinese, pubblicata una raccolta di ricordi, interviste e saggi critici a lui dedicata

Hegel, nell’affermare che la lettura mattutina del giornale avrebbe sostituito – come sua forma secolarizzata – la preghiera, lasciava arguire come la visione del maggior esponente dell’idealismo tedesco fosse segnata da un orientamento tutto positivo – “progressivo”, diremmo – del tempo che la modernità veniva inaugurando. D’ora in avanti, nell’incedere del tempo, con lo sguardo e l’azione nei “fatti mondani”, il sapere del soggetto avrebbe attinto la verità e lo “spirito assoluto” dispiegato i suoi effetti. Non è strano, infatti, che, conseguentemente, egli stesso, enfaticamente, potesse vedere in Napoleone “lo spirito del mondo a cavallo”. Dopo quest’incipit, ci si potrebbe chiedere per quale ragione possa essere Hegel il filosofo da cui partire, dal momento che questi pensieri e accostamenti preludono alla recensione di un volume, denso, ricco e carico di forti suggestioni interamente dedicato a Manlio Sgalambro? A nostro avviso, solo una contraddizione apparente dal momento che Hegel costituisce, per Sgalambro, sin dal suo straordinario saggio d’esordio – irrituale nello stile compositivo, sorprendente per una lingua tagliente, perturbante per la profondità di pensiero -, vale a dire “La morte del sole”, Adelphi, 1982, il principale bersaglio polemico (pur con quell’esergo hegeliano, secondo cui «c’è molto movimento, ma è un movimento di vermi»), ascrivibile insieme a Cartesio, Kant e a tutti gli artefici delle “filosofie monumentali” a quel Pantheon delle illusioni che ha reciso ogni rapporto tra filosofia e verità, stante che quest’ultima è semplicemente “il mondo senza l’uomo”. E che, «fin dove presenzia l’armonia, l’accordo, arride il successo, lì ancora la verità non si è rivelata» (Sgalambro). Altro che “bella unità tra conoscenza e bene”! Solo se perverte, la filosofia è davvero tale, essendo la verità ostile alla vita.
A poco più di un anno dalla scomparsa del filosofo lentinese – ben presto trapiantato a Catania -, vede ora la luce, una bella raccolta di ricordi aneddotici, interviste e saggi critici a lui dedicata, “Caro misantropo. Saggi e testimonianze per Manlio Sgalambro”, a cura di Antonio Carulli e Francesco Iannello, edita da La Scuola di Pitagora. Una pubblicazione meritoria e opportuna, notevole per la sua riuscita finalità sistematica, perché offre l’immagine e i tratti di pensiero di una delle figure più significative della filosofia non-accademica (e “antiaccademica”, potremmo aggiungere) italiana. Sgalambro, non soltanto è stato uno studioso e conoscitore eccellente della grande filosofia europea, ma con largo anticipo e in perfetta solitudine – «ogni filosofia è sola», ha scritto – ha saputo cogliere la centralità di figure apparentemente minori, semmai veri outsider e pensatori trascurati dalle grandi filosofie edificanti: basti pensare a quell’Emil Lask – come opportunamente ricordava anche Massimo Cacciari nel Convegno che, in omaggio a Sgalambro, s’è tenuto a Catania lo scorso aprile -, del quale Sgalambro ha saputo cogliere quello scarto, quella distanza che divide la filosofia come “contemplazione” e la vita, scrivendo con plastica immagine che «solo dopo Lask sappiamo che le forme si disseccano sulle cose come il fango sulle scarpe». Ultimo tra i chierici e “teologo senza Dio”, Manlio Sgalambro, nel suo estremo disincanto e lucido sguardo sul mondo, con i suoi profondi, irriverenti e originalissimi “colpi di martello” filosofici, più che riproporre una seconda – e in ogni caso non “minore” – opera di “distruzione della metafisica”, è stato semmai – senza darselo come “ruolo” – un “metafisico distruttore”. Non solo “pessimo è il mondo”, ma si può anche restare «indifferenti in materia di società», senza bisogno di doversi sottoporre a quella “preghiera” mattutina del giornale.
Ricchi di partecipazione le testimonianze e i ricordi aneddotici – Pino Aprile, Pietro Barcellona, Giuseppe Testa, Marco Iacona, Domenico Trischitta, Angelo Scandurra, per citarne alcuni -, cariche di curiosità quelle recensioni che, all’uscita de La morte del sole, stupirono intellettuali e studiosi – Rolando Damiani, Sergio Quinzio, Mario Andrea Rigoni, Franco Rella -, così come, puntuali sono i saggi critici che lo compongono: quelli di Maurizio Cosentino, Antonio Carulli, Patrizia Trovato, Fabio Presutti, Calogero Rizzo, senza voler far torto agli altri non citati.

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