Efficacia teatrale e dedica, un piccolo dono a Heiner Müller

Manlio Sgalambro in Heiner Müller. Riscrivere il teatro, a cura di Franco Quadri, Alessandro Martinez, Ubulibri, 1999, pp. 95-96

La teatralizzazione del mondo ridà alla parola, al gesto, all’actio oratoria, quel ruolo che il lungo interregno politico non ha concesso. La finzione della felicità riprende corpo rispetto alla cupa felicità del politico. Fingere per rendere felice l’altro. L’illusion comique va più a fondo dell’illusione trascendentale. Immaginiamo un attore. Costui con certe smorfie, un’alzatina di spalle, un gesto, ha fatto tutto. Esprime così bene l’amore che un povero innamorato già si perde d’animo. Il saggio è un attore. La saggezza – come ci confidano gli storici e come testimonia Cicerone – assomiglia a una parte teatrale. Vorremmo definire efficacia teatrale questa efficacia del saggio. Può sospirare purché tale sospiro non provenga dal cuore. Qui si contiene il mistero dell’inganno, di quello che Dante chiamò in maniera illustre l’illusione trascendentale. Qui si vede l’efficacia teatrale della saggezza. “Quel maiale di centoventi chili e io siamo gli stessi”, dice fra sé il saggio. Assurdo. Il suo lardo tremolante lo distingue metafisicamente da me quanto io mi distinguo da un carro. Quanto al principio di carità è più stupido di un ferro da stiro. Ma qui interviene l’efficacia teatrale. Tutto il problema è che io lo persuada, persuada da quell’altro che gli sto facendo del bene, mentre a me – dice il saggio – non importa proprio niente. Se vedesse il mio atto dal di fuori direbbe: “To’, che bontà è la sua!” e cose simili. In realtà dentro di me non c’è un’oncia di buona volontà, ma avviene che il saggio lo sollevi seccato o si butti in acqua per salvarlo. “Ma il mio cuore è affar mio, ti bastino le braccia, vuoi anche il mio cuore? Cannibale!”. Insomma, il mondo si è schiodato e ha fatto mezzo giro. Si mima la bontà con un gestire pazzo. A modo suo canta e ne prevede la possibilità, prevede un’età del gesto che succeda a quella dell’agire. Disse Kant, alla fine della prima parte della Critica della ragione pratica, “il comportamento dell’uomo ne sarebbe dunque trasformato con un semplice meccanismo dove, come in un teatro, tutti gesticolerebbero bene, ma nei personaggi non si potrebbe cogliere vita”. Il protagonista dell’età del gesto gesticola con l’appunto, soffia come un mantice, scoppia in lacrime e, dissolta la morte, si affanna e grida, mente come un calzolaio, vince come un attore, ma in mezzo minuto ha ingannato il suo prossimo una volta e per sempre, e quello è beato. L’efficacia teatrale raggiunge qui le più alte aspirazioni dell’etica. Un mucchietto di parole bastano e avanzano. Qui si pone l’ingombrante problema dell’empio del finto amore. È stato detto che il seduttore è un esteta; il seduttore rappresenta invece quanto più di etico ci possa essere nell’amore. Con un trepido coraggio, ma freddo come una biscia, il seduttore pronuncia le parole esatte che scuotono il cuore della sua bella. Tutto è finto, parole, carezze, lo stesso atto che conclude l’impresa; esso si ispira infatti al principio storico che generosamente lo assiste, ma non riguarda assolutamente l’amata. Eppure il finto amore, fatto di cartapesta e gesso, ha adempiuto al suo compito. Ciò che si rimprovera al seduttore – che una volta raggiunto il possesso egli scompaia, e proprio qui è la parte etica, l’intatta immagine dell’amore resta alla ragazza per sempre, eppure fu un tocco, un attimo e via – assicura l’eternità dell’amore. L’amore reale, il cosiddetto vero amore, trascina ben presto nel fango. Insomma il saggio non ha nessuna compassione per l’afflitto, che gli è indifferente come una capra, ma opera in virtù del principio dell’efficacia teatrale.
Sull’efficacia teatrale, ripeto, come piccolo dono a Heiner Müller.

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