Disobbedienza sociale e utopia

Manlio Sgalambro in Cronache Parlamentari Siciliane, X, n. 10, ottobre 1993, pp. 15-16

Intellettuali e politica. Non si può sfuggire alle coercizioni sociali, come non si sfugge alle coercizioni naturali. Aspirare ad una società giusta è inutile

Quelli che chiedono a gran voce la società «giusta» al posto della società tale e quale mi sembrano immaturi e del tutto folli. La società, che è come è, rappresenta quel minimo necessario dove i molti possano trovare asilo. A dire la verità una specie di vivitorio pubblico, un asilo appunto (come si dice «asilo per i vecchi»). Qui trovano rifugio i derelitti, gli esseri i quali, essendo malauguratamente nati, è necessario che si trovino un qualche tetto per il giorno e la notte, per tutta una più o meno lunga vita.
La società è dunque questo tetto, niente di più. Chi ambisce alla società giusta ha oltrepassato i limiti entro cui può usufruire della società. Piuttosto mentre questo oscuro concetto ritorna ancora più di prima nelle brume, viene in primo piano il problema dell’obbedienza che l’individuo deve alla società, o come si suole dire allo Stato e se la deve e fino a che punto. Non si può sfuggire alle coercizioni naturali. Al fatto di dovere mangiare, espellere, eccetera. Ma a mano a mano che ci distanziamo da tipi consimili di «legami sociali», a quasi tutti gli altri in ragione proporzionale al loro valore o importanza siamo «solo» legati dall’obbedienza è (fatta salva la «forza» che può costringerci egualmente a «rispettarli»: leggi, sanzioni, ecc. le quali però si sorreggono in ultima analisi sull’obbedienza a loro volta). Così ad esempio l’obbligo fiscale. Esso non è certo contenuto in quella (presunta) evidenza con la quale io mi scoprirei d’emblé «animale sociale». Niente può ricavarsi in materia di tassazione da questa «sublime» constatazione. Anzi la legittimazione della disubbidienza (o la cosiddetta disubbidienza civile) trova qui, a quel che pare, i suoi impulsi maggiori (v. Gianfranco Miglio – Henry D. Thoreau, Disobbedienza civile, Milano, 1993, p. 22; «proprio la ripulsa degli obblighi fiscali costituisce abitualmente insieme lo scopo e la modalità della “disobbedienza civile”»; «Non è per caso se le maggiori rivoluzioni politiche d’Occidente, quella puritana nell’Inghilterra del Seicento e quella francese del 1789, sono state innescate da gravi controversie in materia di tassazione», p. 26). Ma quello che qui ci importa è se la disobbedienza non possa costituire un principio generale in mano all’individuo con cui egli possa controbilanciare il pregiudizio che l’individuo sia solamente un essere sociale e gli effetti devastanti che per lui e gli altri ne derivano. Si apre per intanto nei confronti della società quel tipo di dibattito interno che l’individuo religioso ebbe nei confronti della propria aborrita natura.
Da li proveniva, si stimava, ciò che di bestiale e di basso permaneva nell’essere umano. (Si pensi alla «natura» senza il riscatto della grazia della fede cristiana e al principio: «Gratia perficit naturam». Ma l’improbabilità di questo asserto è simile a quella del «rivoluzionario» odierno che afferma: «la rivoluzione perfeziona la società»).
Considerato come essere sociale, l’individuo è come se non avesse compiuto interamente il proprio sviluppo. Come se fosse rimasto a mezzo. Da questo strato sociale comunque emergono in lui i cattivi istinti sociali e tutte le turpitudini che i legami sociali gli hanno lasciato. E che noi vediamo chiaramente nel bigotto sociale che pronuncia il nome «società» mille volte al giorno. Ne proviene il fanatismo sociale, più esiziale del fanatismo religioso. Certamente la preferenza dello stato politico allo stato naturale al fine della propria autoconservazione «la maggior parte degli uomini desidera per la maggior parte del tempo continuare a vivere», secondo una formulazione contrattualista recente (v. Hart, Il concetto del diritto, Torino 1965, p. 222), resta intatta come resta intatto il corpo, pur macerato dalle mortificazioni a cui lo sottopone l’asceta che lo detesta. Ma i legami sociali non rivestono più alcuna nobiltà agli occhi dell’individuo ed egli li subisce come parte di un destino non favorevole. Il principio della maggioranza non gli sembra che un torto in più che gli si fa subire e quel «bene comune», ad esempio, che una decisione della Maggioranza vuole rappresentare colpisce e lede il mio «bene comune», quello che per me è solamente tale. «Quindi il voto della maggioranza – scrive un ignorato filosofo della politica – colpisce proprio la mia idea di bene comune (che viveva solo in quel fatto), la nega, non può dunque essere per me che l’affermazione del danno comune, proprio tale e quale come se la maggioranza avesse detto esplicitamente: “voglio il danno comune”» (Giuseppe Rensi, La filosofia dell’autorità, Catania 1993, p. 36; la prima edizione di quest’opera fu pubblicata a Palermo s.d. ma nel 1920).
Ritorniamo qui alla cosiddetta disobbedienza civile. (Quanto a noi preferiremmo chiamarla «disobbedienza sociale»).
Dobbiamo considerarla come una specie di «valvola di scarico» sociale, come è stato detto da qualcuno? «La “disobbedienza civile” è così una sorta di “valvola di scarico”, la quale con sente ai cittadini di evitare il pericolo dell’obbedienza per abitudini o pigrizia e quindi di recuperare una fiducia attiva e convinta nel resto delle istituzioni» (v. Gianfranco Miglio, op. cit., p. 33). Si deve invece vedere in quest’ultima affermazione una sorta di vaccinazione del principio della disobbedienza per farla rientrare alla meglio nella società stessa.
Mentre invece essa scende sulla società come se venisse da altrove. Da oltre la società.

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