La consolazione

Manlio Sgalambro, Adelphi, 1995

Da molto tempo la filosofia tace – quasi ne fosse imbarazzata – sull’argomento della consolazione, così come trascura ostinatamente la figura del consolatore. Questi temi, tuttavia, benché spinti per comodità nei recessi più appartati, lontani dalla speculazione corrente, hanno continuato a informare occultamente il pensiero, tanto che forse non sarebbe illegittimo «riscrivere la storia della filosofia moderna dal punto di vista della consolazione». Se la vetta più alta della morale è la compassione, in virtù della quale un individuo riconosce se stesso nell’altro e agisce di conseguenza, il consolatore non prova che assoluta indifferenza nei riguardi dell’afflitto. Ma è proprio questa indifferenza a permettere il passaggio dalla compassione alla consolazione: «A me non importa nulla di te, ma solo così ti posso consolare». Al pari del cinico seduttore che, freddo come un rettile, finge l’amore dicendo ed eseguendo esattamente tutto ciò che schiude il cuore, così il consolatore mima la bontà con gesti artefatti. Le parole, le carezze di entrambi sono posticce, di cartapesta, nondimeno assolvono il loro compito, perché «c’è un inganno di cui, primo fra tutti, si rallegra mestamente l’ingannato».
In questo libro piccolo e denso, che ha la struttura di un trattatello, il pensiero viene indagato come dai grandi seicenteschi venivano indagate le passioni: nei suoi moti segreti, nella sua miseria e nella sua grandezza. Alla fine del percorso, che attirerà chiunque preferisca i sentieri aspri ai confortevoli itinerari accademici, il consolatore apparirà dunque «un truffatore, ma in senso superiore», e la consolazione si rivelerà come il contrassegno di quell’«età del gesto» preconizzata da Kant in cui, esaurite le risorse dell’agire, non rimarranno che le virtù taumaturgiche della parola.

All’uomo bisognoso di consolazione, cui improvvisamente è venuto a mancare qualcosa di essenziale per la sua vita, o qualcuno che fino a un momento prima era presente e gli parlava con caldi accenti, le parole del consolatore restituiscono ciò che è venuto a mancargli. Dapprima esse si limitano a evocarlo con semplicità – l’amore ormai finito, l’amico morto, la felicità fuggita… -, ma se raggiungono l’acme separandosi severamente da ogni evocazione idolatrica, non essendo altro che parole, per un breve momento egli è consolato. L’edificante ha agito. Il prodigio è questo: laddove vi fu una presenza viva e reale, il cui cuore batteva col suo, che aveva stretto con passione tra le sue braccia, ora vi sono solo parole, eppure, ecco il prodigio, di quella presenza non sente più la mancanza. Se la consolazione riesce a restituire all’afflitto ciò che egli perse, e glielo restituisce con comuni parole, allora io metto l’edificazione più in alto di tutto, e mi umilio ai suoi piedi.

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