Filosofi, siate irresponsabili come Dio

Antonio Gnoli in La Repubblica, 12 maggio 1990, p. 10
(intervista e recensione a Manlio Sgalambro, Anatol)

Parla Manlio Sgalambro, autore di “Anatol”, un romanzo atipico e tragico intriso dell’idea del suicidio

L’angusta stanza del palazzo ottocentesco che dà sulla grande piazza un tempo bella (ma ora solo un enorme parcheggio) può anche dare l’idea di essere capitati al centro di una congiura filosofica. La penombra di un pomeriggio a Catania avvolge il volto di Manlio Sgalambro. Ne rende i tratti taglienti più cupi, la mimica più amara. Ed è come stare davanti a un consumato attore destinato per sorte e per vocazione ai ruoli del cattivo. «Il filosofo», esplode, «è un assassino mancato».
Il sessantaseienne Sgalambro è al suo terzo libro con Adelphi. Dopo «La morte del sole» (1982), «Il trattato dell’empietà» (1987) esce ora «Anatol», quest’ultimo titolo pare preso in prestito da un racconto del viennese Arthur Schnitzler, per il pensatore catanese (è nato infatti a Lentini) è solo un suono, una possibilità acustica: «Quale linguaggio il filosofare deve avere per diventare udibile? Oggi che non è più possibile, pena il ridicolo, la scrittura torrentizia, l’unica misura del pensare è la stanchezza. ‘Anatol’ in fondo nasce da questo stato di prostrazione».
Sembra di udire il filosofo e romanziere francese Georges Bataille. In entrambi lo stesso gorgo negativo, il medesimo disaccordo verso la morale cristiana, il bene, le grandi istituzioni dell’Occidente.
Sgalambro sta lavorando a un quarto libro che consegnerà al suo editore in autunno: «Si tratta di qualcosa», anticipa, «che coinvolge direttamente il pensiero teologico». A dire il vero l’ossessione negativa di Dio fa parte del bilancio filosofico di quest’uomo che non fa nulla per piacerti. Sgalambro, come un’entità neopagana, semplicemente è.
Quando parla si ha la sensazione che le sue convinzioni siano dure e taglienti come pietre: «La filosofia», dice, «bisogna farla credendo di essere filosoficamente infallibili. Lei pensa che S. Agostino, Spinoza, Hegel, Shopenauer, filosofassero ritenendosi fallibili? Non c’è una riga nelle loro opere che attesti questo».
E allora – replico – cosa ne è del dubbio, che sta alla base della filosofia moderna? «Ah Cartesio! Nessuno più di lui, partendo dall’inganno, dal dubbio, ha elevato cattedrali di certezze».
Oggi il dubbio per Sgalambro può essere praticato solo come sospetto nei confronti degli altri. Come una forma di diffida verso l’uomo: «Questa carne umana palpitante che per tanti anni ci è stata buttata addosso attraverso libri, articoli, convegni, a un certo momento ha provocato un senso di sazietà, di disgusto…». Una sfiducia così netta nel prossimo suona come una risata beffarda sull’edificante quadretto che Hans Georg Gadamer ha disegnato con la sua filosofia del dialogo. Gadamer è un cretino, pensa in fondo Anatol.
Il disprezzo di Sgalambro, che in anni giovanili, abbandonò il corso di giurisprudenza senza laurearsi, portando con sé la riprovazione del padre farmacista, si allunga sulla filosofia praticata nelle aule universitarie. «Non è stupefacente» dice, «dare tesi di laurea sulla morte, sul nulla, esaminare qualcuno sull’angoscia e dargli un voto? Se penso alla filosofia universitaria mi viene in mente un trattato di tossicologia. Un trattato che parla del veleno ma non è veleno».
Quella di Sgalambro è la filosofia dell’irresponsabilità. Il filosofo dice, gli altri agiscono. Ma fra il dire e l’agire non c’è nessun obbligo, nessuna relazione morale. Anatol si ripromette prima o poi di suicidarsi: «bisognerà certo spararsi ma per intanto viviamo», dice. Ecco lo Sgalambro plateale: «il mezzo della morte lo porto sempre con me. Il suicidio è la libera morte, la facoltà di una scelta insieme estrema e centrale». L’argomento sa di abusato. Lui stesso ne conviene, ma aggiunge: «Al suicidio non penso come a un momento di ripiego, al mistero, o all’effetto provocato da un intenso dolore; il suicidio, l’unico tipo di suicidio che in fondo ammetto, nasce da una forma di pienezza, d’estasi, di fusione intima fra la vita e la morte».
Gli chiedo se questa teorizzazione in qualche modo non lo spaventi.
«Credo che la trappola della responsabilità impone che uno alla fine resti dentro i tabù. La trappola della responsabilità somiglia ai limiti che Kant impose alla conoscenza, solo che in questo caso i limiti sono posti all’azione». È facile essere irresponsabili. Sgalambro non è d’accordo: «l’irresponsabilità di cui parlo è quella che vorrei ci fosse solo nei grandi filosofi. È la divina irresponsabilità così difficile da trovare».
Sgalambro accenna al suicidio di un giovane allievo. Nelle parole si avverte un’incrinatura. È come se il ragionamento, fino ad ora così teso, si infrangesse sulla dura morte reale: «Non mi sento responsabile in nessun modo di quella morte. Ma è certo che uno non è filosofo costantemente. Uno mangia, va a donne, si preoccupa del quotidiano. E c’è anche il momento in cui il volto dell’altro ritorna davanti. Ti chiedi che cosa è successo, come sia stato possibile. La libera morte non ci libera dal dramma».
Per la cronaca, Sgalambro oggi vive della fama e dei diritti che i libri gli danno. Non insegna. Ufficialmente non può, non essendo laureato. E poi non gli interessa. In passato, per campare, compilava, su commissione, tesi di laurea. Ha una moglie che svolge la professione di assistente sociale e cinque figli (di cui quattro femmine) e un enorme cane che ogni tanto irrompe nella stanzetta in cui conversiamo. Mi incuriosisce sapere qualcosa di più circa il rapporto fra questo padre e i suoi figli: «Indubbiamente ci amiamo. Loro amano me perché esisto. E io amo loro per lo stesso motivo». Amare non per legami di sangue, per il dovere, bensì per la sola presenza fisica; questo è il mondo sentimentale di Sgalambro.
Sul tavolo dove lavora fra libri accatastati e fogli sparsi, spunta lo spengleriano «Tramonto dell’Occidente». Non è un buon modo per concludere questo viaggio? «I tramonti mi danno un’emozione e un senso della vita maggiore che le nascite. Forse perché stiamo qui».
Lo sguardo di quest’uomo elegantemente disperato abbraccia la stanza, ma è come se volesse comprendere l’intera Sicilia. «Lei consideri l’essenza di un’isola, un’essenza talassica. Un’isola che poggia sull’instabile, sui flutti. Io credo che la Sicilia è come se volesse sparire, come se non volesse più esserci. Si salva da questa volontà negativa solo quando si esprime con l’arte. Però è intrinseco al siciliano il desiderio di tramontare, perdersi nei flutti, naufragare. Come può naufragare un’isola che somiglia a una nave che va in pezzi. I momenti della storia che maggiormente mi attraggono sono quelli in cui un’epoca volge al termine. La fine dell’Impero romano o di quello bizantino, li vedo come momenti deliziosi della storia, non già come tragedie. Mi affascinano quei fuochi che prima di spengersi mandano ardenti bagliori. Sono momenti importanti, lo sono almeno per un passante come me».

“Il dubbio oggi va praticato come sospetto”

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